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mercoledì 4 dicembre 2013

Per una relazione autentica: uno sguardo alla determinazione ontologica dell’uomo.



Si chiami homo perché è fatto di humus (Terra)
M. Heidegger


 “La Cura mentre stava attraversando un fiume, scorse dal fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La Cura lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la Cura pretese imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre la Cura e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito. Tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso viva lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo perché è fatto di humus (Terra)”[1].
In questa fabula, che Heidegger riporta in Essere e Tempo, l’uomo è forgiato dalla Cura e ad essa appartiene per il tempo della sua vita. In tale senso la Cura non è intesa come un atto o una serie di atti ma l’essenza dell’essere-nel-mondo dell’uomo, dell’Esserci. Essa ha “un’apriorità esistenziale” per cui viene prima degli atti di cura: si situa prima di ogni comportamento e di ogni situazione in cui l’Esserci si trova[2].
La Cura è un esistenziale, e in quanto tale definisce l’umanità dell’uomo. Senza Cura, non vi è umanità. Dal suo primo sguardo sul mondo, ciascuno si trova nella condizione esistenziale di appartenere alla Cura. Se noi siamo plasmati dalla Cura, se siamo esistenzialmente Cura, non possiamo certamente dipendere dagli atti di cura[3].
Dunque il tentativo di Cura fallisce a priori dato che qui non lo intendiamo come atto, ma come un esistenziale. La rivelazione dell’Esserci come Cura implica che l’Esser-ci in quanto con-esserci si rapporta al mondo secondo le determinazioni del prendersi cura e dell’aver cura. L’aver cura è “l’incontro (autentico) col con-esserci degli altri nel mondo”, distinto dal prendersi cura inteso come l’esser presso le cose, che riduce l’altro a un “utilizzabile”, lo sottopone secondo Levinas a uno “sguardo totalizzante”, molto più semplicemente, non lo rende una “cosa” come afferma Buber[4].
Se io ho cura di me e ho cura di aver cura di me, allora mi “pre-occupo”[5] dei miei comportamenti e di tutte le situazioni in cui vengo a trovarmi. Ancora se ho cura di me e degli altri allora considero me, iscrivo me e allo stesso modo gli altri di cui ho cura nella molteplicità delle possibilità dei modi di essere dell’esserci. La dimensione dell’aver cura schiude quindi l’esistenza dei singoli membri, ne definisce il poter-essere, ossia la progettualità esistenziale. Nel momento in cui mi prendo cura sto inevitabilmente facendo riferimento ad un oggetto, quindi prendendomi cura di una persona ne sto negando l’esistenza.
“La vita dell’essere umano […] non consiste soltanto in attività che hanno un qualcosa per oggetto. Percepisco qualcosa. Provo qualcosa. Mi rappresento qualcosa. Voglio qualcosa. Sento qualcosa. Penso qualcosa. […] cose di questo genere insieme, fondano il regno dell’esso. Ma il regno del tu ha un altro fondamento. Chi dice tu non ha alcun qualcosa per oggetto. Poiché dove è qualcosa, è un altro qualcosa; ogni esso confina con un altro esso; l’esso è tale, solo quando confina con un altro. Ma dove si dice tu, non c’è alcun qualcosa. Il tu non confina. Chi dice tu non ha alcun qualcosa, ma sta nella relazione”[6].
Aver chiaro questo, come professionisti psicoteraputi, è uno degli aspetti indiscutibili della terapia col paziente. Se io ho cura del paziente, si schiuderanno di fronte una ampia gamma di possibilità dei modi di essere di quella persona e questo permetterà  di guardare più chiaramente nella sua progettualità. Questa essenziale e sostanziale distinzione tra aver cura e prendersi cura potrebbe evitare molte delle controversie e di quelle ambiguità di cui spesso risultano vittima nostre relazioni.
La cura, il rispetto, l’amicizia, l’amore dovrebbero essere rappresentanti di legami saldi, e pure le istituzioni pubbliche dovrebbero poggiare su un rapporto di fiducia sociale schivo di qualsiasi forma di conflitto di interesse. Invece proprio le istituzioni sembrano fondarsi sulla competizione e la brama di dominare gli uni sugli altri e tutto questo genera spiacevoli incombenze. Infatti come osserva Virginia Held, si tende a considerare innovativo soltanto ciò che ha a che fare con il governo e la produzione. Invece, se si riuscisse a guardare alla convivenza umana, alla luce di quanto detto, potremmo riconoscere una nuova centralità, quella del rapporto fra la persona capace di cura materna e il bambino che, molto più della competizione e del dominio sugli altri, è relazione dell’orizzonte specificamente umano[7].
Infatti aver cura dell’esistenza porta con sé un desiderio di trascendenza, di oltrepassare una situazione data per porsi di fronte al possibile, a ciò che autenticamente rappresenta il proprio poter essere; aver cura è, in questa prospettiva, “farsi soggetti capaci di generare mondi[8]”. La componente generativa dell’aver cura è evidente nella matrice etica della cura materna, che non si limita a far nascere biologicamente il figlio, ma lo fa nascere in quanto soggetto, portatore di possibilità di esistenza  che vanno tutelate e promosse[9].
L’agire materno “sufficientemente adeguato” rappresenta un vero e proprio versante di riflessione sull’etica pubblica, nella misura in cui questa si muove nella direzione di promuovere la vita e le possibilità di chi viene al mondo[10].
È risultato sostanziale tenere presente questa differenza nella terapia con i pazienti, tuttavia questo è solo uno degli aspetti da tenere in considerazione nella relazione terapeutica. Sono specializzata in psicoterapia ad indirizzo antropologico trasformazionale. Tale orientamento individua un inedito dispositivo di cura: il soggetto collettivo curante. La caratteristica specifica di quest’approccio, che discende dal lavoro di pratica sociale e di ricerca clinica di psicologi e di psichiatri all’interno dei servizi di salute mentale, sta nell’utilizzo di una “terapeuticità” diffusa, collettiva, transindividuale. Sicuramente è importante non essere l’unico titolare della “terapeuticità” del processo di cura, nel senso di una collaborazione tra altre figure professionali. Ma indubbiamente questo non basta. Colgo con piacere l’invito di G. Buonaiuto rispetto ad una sensibilizzazione tra vari detentori del sapere[11].
Credo fermamente che bisogna essere inclini alla pluralità, anziché solidificarsi e dogmatizzarsi in un sistema di dottrine; bisogna lasciare ampi margini per ulteriori sviluppi e per un costante arricchimento, perché solo con feconde contaminazioni possiamo riuscire umilmente ad essere autentici professionisti. Non si smette mai di formarsi, di apprendere, di confrontarsi: la mia esperienza mi insegna che con una forte indipendenza e creatività si possono elaborare efficienti prospettive. Si ricordi che nemmeno i più stretti allievi, collaboratori e assistenti di Husserl, come Edith Stein o Eugen Fink, addirittura Martin Heidegger, possono essere definiti husserliani[12].



[1] M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1976.
[2] Ibidem.
[3] Questa è la condizione in cui viene a trovarsi il neonato che dipende dagli atti di cura della madre.
[4] M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, Milano, San Paolo, 1993, p. 27.
[5] Uno dei significati  originari di cura è proprio quello di pre-occupazione spiega M. Conte, ne “La cura come esistenziale pedagogico”, in Encyclopaideia, 2001.
[6] Ibidem, p. 60.
[7] V. Held, Etica femminista. Trasformazioni della coscienza e famiglia post-patriarcale, Milano, Feltrinelli, 1997.
[8] L. Mortari, aver cura della vita della mente, Firenze, La nuova Italia, 2002.
[9] Ibidem
[10] H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, Einaudi, 1990.
[11] G. Buonaiuto, Il contratto in terapia. Guida pratica per il primo approccio con il paziente”, Milano, Ferrari Sinibaldi, 2013.
[12] Per chi vuole approfondire legga Storia della fenomenologia, Antonio Cimino e Vincenzo Costa, Roma, Carocci, 2012.

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