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domenica 26 agosto 2012

Il corpo esprime ciò che la mente reprime


Il filosofo greco Anassagora (500-426 a.C) immaginò un principio, chiamato mente, in grado di fornire alla materia il suo peculiare ordine. Secondo la sua visione, infatti, tutta la realtà è dualistica, costituita da mente e materia.
René Descartes, il filosofo e matematico francese del diciassettesimo secolo che affermò, “Penso, dunque sono” (in latino “Cogito, ergo sum”), fece di più: tracciò una netta distinzione tra mente e corpo. Per Descartes, la mente era una sostanza immateriale responsabile del pensiero razionale, dell’immaginazione, del sentimento e della volontà. Il corpo era legato alla sfera materiale. Tutta la materia era completamente soggetta alle leggi della fisica, tranne il corpo che era influenzato anche dalla mente umana, o volontà, anche se è un’entità distinta. Il dualismo mente-corpo di Descartes costituì per il pensiero occidentale il lavoro di preparazione alla separazione tra teologia e scienza, materialismo e spiritualismo, corpo e mente. Egli sostenne la distinzione, nell’ambito della scienza, tra fenomeni fisici o malattie e quelle di natura mentale o emotiva. Sfortunatamente, questa concezione ha segnato il pensiero occidentale nei secoli a venire portandoci a concentrare le nostre attenzioni sulla parte per noi più nobile, ovvero la nostra mente, scindendola e separandola dal mezzo che la nostra mente ha per interfacciarsi con il mondo esterno, ovvero il nostro corpo. La maggior parte delle persone sembra essere in grado di riferire su idee e pensieri ma fatica a riconoscere e descrivere sensazioni, dà alle prime una dignità e un ruolo che non riesce ad attribuire alle seconde, concepisce il corpo come qualcosa che possiede, ma non come parte integrante del sé. La nostra cultura continua a ribadirci che il sé non è corporeo ma mentale e che l’“Io” non si riferisce all’esperienza corporea. Anche nel nostro vivere quotidiano, continuamente diciamo il “mio corpo” e ciò che è mio, per definizione, è un oggetto al di fuori di me. Il corpo diventa un non-sé perché l’identificazione avviene con gli aspetti ritenuti superiori: la mente, la psiche, la personalità.
Sia la cultura sia i nostri processi di pensiero ci inducono verso un processo di desensibilizzazione che ci allontana sempre di più dalle nostre sensazioni corporee: tuttavia la nostra esperienza
ha inizio proprio con le sensazioni interne ed esterne (percezioni) che rappresentano il fondo di energia e di informazioni grazie al quale viviamo nel mondo. Queste capacità sensoriali possono essere divise in due categorie per quanto riguarda il nostro contatto con la realtà. Esistono quelle orientate verso l’interno del sé: la propriocezione (il senso della posizione delle parti del corpo), la cinestesia (il senso del movimento), le sensazioni viscerali (il senso di pienezza o di vuoto degli organi digestivi, la fame, il battito cardiaco), e i vari recettori di pressione, dolore, piacere; così come le “sensazioni” dei pensieri e delle immagini visive. Questi sensi ci indicano lo stato attuale del nostro organismo, dei nostri sentimenti, desideri e bisogni e ci radicano alla realtà personale.
Ci sono anche altre capacità sensoriali orientate verso la nostra relazione con l’ambiente: la vista, l’udito, il gusto, il tatto e l’olfatto. È attraverso questi sensi che siamo legati alla realtà dell’ambiente e determiniamo la nostra relazione con esso. Senza una chiara sensazione dall’esterno, perdiamo il contatto con ciò che è a nostra disposizione, ciò con cui dobbiamo lottare e a cui dobbiamo adattarci, perdiamo contatto con il modo in cui dobbiamo direzionarci per fare un’esperienza piena.
In mancanza di sensazioni chiare ed accessibili, perdiamo il contatto con i bisogni, con il nostro stato organismico presente, la nostra relazione con l’ambiente. Senza una chiara percezione sensoriale di noi stessi e una chiara percezione sensoriale dell’ambiente, perdiamo il nostro fondamento nel mondo. Nonostante l’importanza delle sensazioni provenienti dal nostro corpo, tutti noi possediamo almeno qualche area della vita sensoriale che abbiamo desensibilizzato, cioè rendiamo noi stessi meno sensibili agli stimoli e all’esperienza. Alcune persone infatti sperimentano la difficoltà a sentirsi tristi in occasioni in cui la tristezza è appropriata; altre persone fanno esperienza con una generale e cronica mancanza di vitalità o con una incapacità ad apprezzare la vita e così via. Più i nostri sentimenti per la vita e la connessione con l’ambiente diventano inaccessibili, più buona parte del nostro senso del sé, della nostra esperienza del vivere, diventa inaccessibile. Il risultato è che arriviamo a sperimentare la vita con la sensazione di avere a che fare con le “solite cose”. Esistono scarsi momenti salienti e di contrasto, eccetto quando forziamo la nostra esperienza attraverso l’edonismo, le droghe, l’alcol, oppure la ricerca del pericolo, del rischio e delle crisi per dare uno scossone alla nostra carne intorpidita e indurla alla vita. Coloro che rifuggono i propri sentimenti attraverso l’intellettualizzazione e la vita incorporea di puro pensiero sono simili nella natura, sebbene non nella tipologia, a coloro che devono flagellare il proprio corpo vivo usando un duro e maniacale esercizio fisico; c’è ancora chi sostituisce i bisogni corporei con bisogni fittizi e artificiali come ad esempio un bisogno estetico piuttosto che una concentrazione sul senso di sé.
I problemi di anomia (mancanza di identità), distacco, mancanza di coinvolgimento e di connessione, che sembrano così prevalenti nelle nostre società, derivano, in parte, non da una crisi filosofica, ma dalla desensibilizzazione della nostra base sensoriale. Ma come avviene questo processo di desensibilizzazione? Quando le sensazioni ci disturbano e non è possibile evitarle agendo sulla fonte ambientale di disturbo o fuggendola, un modo di fronteggiarle è quello di alterare la percezione della sensazione. Gli esseri umani sono capaci di attenuare l’impatto delle sensazioni o riducendo la propria qualità di attenzione o indebolendo la capacità di percezione dei propri organi: questo processo è chiamato desensibilizzazione. La desensibilizzazione diminuisce l’esperienza del disagio, ma esige un prezzo da pagare in quanto riduce la capacità di sentirsi vitali e un pieno senso di sé.
Ma quand’è che le nostre sensazioni risultano spiacevoli? Le sensazioni possono essere fonte di disagio per tre motivi fondamentali. Uno è che esse sono intrinsecamente spiacevoli, come il dolore fisico, la fame, il freddo. Un secondo motivo è che le sensazioni che segnalano bisogni organismici procurano disagio quando non possono essere soddisfatte: il bisogno di contatto umano quando non viene soddisfatto diventa solitudine penosa; il bisogno di movimento diventa tensione dolorosa se non soddisfatto. Una terza ragione è che le sensazioni possono essere in conflitto con convinzioni fortemente radicate: le sensazioni e i sentimenti sessuali vengono vissuti come intollerabili se sono ritenuti “sporchi”; i sentimenti di rabbia sono qualcosa che “non si esprime in questa famiglia” e diventano così inaccettabili quando vengono esperiti.
La desensibilizzazione intacca quindi la nostra abilità di prestare attenzione alle sensazioni e in particolare ci desensibilizziamo dall’esperienza attraverso:
L’attenzione selettiva. Evitiamo di prestare attenzione all’esperienza del corpo distraendoci, oppure spostando la nostra attenzione prima che una sensazione interiore sia diventata chiara a livello di consapevolezza.
L’interferenza con la respirazione. Allo scopo di conservare abbastanza vitalità per avere sensazioni adeguate, dobbiamo sostenere la nostra vitalità con il respiro. Una respirazione superficiale o minima indebolisce il nostro sentire.
La contrazione muscolare cronica. Questa “spinge fuori” la sensazione corporea, rendendo il tessuto insensibile, e impedisce i movimenti ravvivanti. La tensione muscolare cronica alla fine diventa statica e strutturale. Viene istituzionalizzata nei muscoli e nella postura.

Fortunatamente nell’ultimo secolo l’analisi bio-psico-sociale apportata dalle scienze umane ha iniziato una integrazione tra processi fisici e mentali, ridando la giusta importanza al concetto stesso di unità psico-fisica. Negli ultimi anni, in psicoterapia sembra addirittura aumentata l’attenzione nei riguardi dei fenomeni del corpo. Due influssi hanno contribuito maggiormente ad ampliare la visione dell’uomo includendo i processi corporei: uno è stato l’interesse per le arti e per le terapie corporee nella psicologia umanistica e nei movimenti per il potenziale umano, compreso un rinascere delle terapie ad orientamento reichiano, l’enfasi sul corpo nella psicoterapia della Gestalt, e le arti corporee come lo Hatha yoga, le arti marziali, le tecniche di Feldenkrais e di Alexander, ed il Rolfing (integrazione strutturale). Un secondo influsso è stato esercitato dalla comprensione del comportamento non verbale come forma di comunicazione. Questa influenza è stata utilizzata da psicoterapie quali l’ipnosi Eriksoniana e dalle scuole di terapia interessate alle comunicazioni moderne (ad esempio la comunicazione in coppia).
All’interno di questa recente ondata di interessi per i fenomeni corporei esistono tuttavia differenze significative nei modi attraverso cui il processo corporeo viene inteso nel contesto della psicoterapia. Queste differenze si riflettono in quattro punti di vista:
Terapie, come la psicoanalisi e il cognitivismo, che presentano poca attenzione ai fenomeni corporei se non come sintomi di problemi mentali “sottostanti” (cioè, come epifenomeni della mente/cognizione);
Arti corporee, come quelle sopra citate, che lavorano solo con i processi fisici, tanto quanto la psicoanalisi lavora solo con i processi mentali;
Le scuole di terapia centrate sulla comunicazione e quelle comportamentali, che vedono i fenomeni corporei come una serie di segnali da controllare o come comportamenti da modificare;
Le terapie corporee che mirano ad un intervento in profondità, come la scuola della Gestalt e quella reichiana, che vedono il corpo come intrinseco al sé e hanno una concezione olistica della persona.

Al di là dei differenti punti di vista teorici, per la nostra personale opinione della psicoterapia riteniamo importantissimo l’impiego del metodo esperienziale ai fini di una efficace processo di guarigione. L’interazione e il lavoro con il paziente solo a livello verbale presentano forti limitazioni. L’avvenuta comprensione di un  problema costituisce, infatti, un buon passo avanti, ma non è identica alla sua risoluzione. L’impiego di tecniche basate sull’esperienza diretta e coinvolgenti direttamente il corpo, quali bioenergetica, gestalt, massaggio, psicodramma, biodanza, rebirthing potenziano enormemente la capacità trasformatrice dell’intervento terapeutico. Esse hanno, per di più, il vantaggio di affidarsi a meccanismi di autoregolazione innati del sistema psicofisico dell’uomo, limitando gli errori di valutazione in sede diagnostica e strategica.
Per questo motivo dopo un breve excursus tra le diverse teorie e approcci che integrano il corpo nei loro modelli, tratteremo della visione di Reich e Lowen, confrontandola con la psicoterapia della Gestalt fino ad arrivare a disquisire delle  moderne e attuali discipline che utilizzano il corpo come strumento di cura di pari dignità rispetto alla mente e lo integrano con delle tecniche di tipo esperienziale. In particolare volgeremo uno sguardo più attento a tecniche come quella di Feldenkrais o alle più recenti tecniche di Biodanza e proveremo ad ipotizzare la possibilità di un loro utilizzo all’interno della psicoterapia ad orientamento gestaltico.

L’importanza di una concezione olistica
La separazione del corpo dal sé e, per estensione, la separazione di corpo e mente, è un adattamento agli eventi dolorosi della vita di cui si fa esperienza fisicamente. La persona rimane una totalità, ma arriva a fare esperienza del sé come se fosse diviso in parti. In questa frammentazione di se stessi, l’“Io” di solito viene identificato con il funzionamento mentale (la produzione di pensieri, immagini, parole ecc.) e quegli aspetti della propria esperienza corporea che sono stati vissuti come problematici e dolorosi vengono sperimentati come “esterni” a se stessi.
Il metodo terapeutico dovrebbe mirare ad integrare l’esperienza del paziente in una totalità attraverso il recupero e la riappropriazione degli aspetti rinnegati del sé, in particolare gli aspetti corporei del sé. Tuttavia risulta molto difficile, all’interno del nostro contemporaneo contesto culturale, riuscire a scardinare la concezione diffusa di considerare corpo e mente come entità distinte.
Tra le principali teorie a cui possiamo attingere affinché vengano esplorate e integrate tutte le possibili connessioni tra mente e corpo, le principali e più accreditate sono le seguenti:
1.     La visione Monistica.
Nella visione monistica la mente non è nient’altro che il prodotto della chimica elettrofisica del cervello; ciò vuol dire che una persona equivale al funzionamento dei suoi organi, e i problemi possono essere individuati e trattati curando i particolari organi compromessi.
2.     L’approccio Unidirezionale.
Nella visione dualistica le sfere di mente e corpo sono completamente separate tra loro, e ognuna di esse richiede un trattamento a sé; la terapia verbale per i problemi mentali e la terapia fisica per la sofferenza corporea. In alcuni approcci dualistici si ammette che queste due sfere separate possano avere effetto l’una sull’altra, ma si ritiene che l’approccio più desiderabile sia quello di un corretto trattamento della sfera in cui ha sede il “problema reale”.
A questa visione appartengono numerose terapie corporee, come l’integrazione strutturale (Rolf), la tecnica di Alexander e la tecnica di Feldenkrais. Questi ed altri approcci somatici riconoscono il contributo dei processi psicologici nella formazione della tensione corporea e degli squilibri posturali. Tuttavia non esiste alcuna metodologia strutturata al fine di lavorare con i processi psicologici e per connetterli esplicitamente al lavoro somatico. Alcuni di questi approcci si spingono fino a supporre una interdipendenza, sebbene non un vero e proprio olismo, di mente e corpo. Questa assunzione nasce dal ritenere che vi sia una mutua connessione tra struttura e funzione. Per esempio dal punto di vista psicologico, se si modifica il processo psicologico (il conflitto o la difesa), si modifica la struttura somatica che è in relazione con esso. Dal punto di vista somatico, se si modifica la struttura (il corpo), si modifica la funzione (psicologica) che è in relazione con essa. Questa premessa della correlazione struttura/funzione è abbastanza esplicita in molte terapie somatiche, ed è implicita nel modo in cui la maggior parte degli approcci unidirezionali alla psicoterapia intendono affrontare i disturbi somatici. Questi approcci, tuttavia, non possiedono alcun modo per colmare la lacuna esperienziale tra le parti, né per trattare la relazione struttura/funzione come una totalità al fine di evitare l’isolamento delle parti. Non è raro per gli individui che sono passati attraverso varie esperienze di terapia corporea l’aver riportato un cambiamento corrispondente nella loro vita emotiva quasi nullo. Frequentemente essi sono incapaci di mantenere i cambiamenti della loro organizzazione posturale e muscolare poiché non hanno esaminato come questi aspetti fisici si situano nelle loro vite emotive. Analogamente, vi sono persone che si sono sottoposte a una lunga psicoterapia e i cui atteggiamenti corporei abituali impediscono ancora a ciò che hanno compreso di se stesse di potersi incarnare nel loro comportamento e nel loro modo di interagire.
3.     L’approccio terapeutico metodo alternato.
Nel modello del parallelismo le sfere del corpo e della mente sono considerate separate eppure strettamente collegate, così che l’una inevitabilmente ha effetti sull’altra. A seconda del grado di connessione che si percepisce tra le parti, i problemi di una sfera saranno una funzione della disfunzione che esiste nell’altra, ed i cambiamenti che avvengono in un’area avranno un impatto sull’altra. Un modo per combinare il lavoro fisico e quello mentale è alternare i due tipi di intervento. Questo punto di vista è spesso caratterizzato dalla parola “e”, come in “bioenergetica e psicoterapia della Gestalt”; tecnica di Feldenkrais e Psicoterapia… Il terapeuta lavora alternativamente con la terapia verbale e con un approccio ad orientamento corporeo in un tentativo di rivolgersi sia agli elementi mentali che a quelli fisici dell’esperienza e del funzionamento del paziente. In questo tipo di approccio non c’è una convergenza di metodi: vengono utilizzati in momenti differenti e non si realizza alcun tentativo di lavorare simultaneamente con il processo corporeo e con il processo psicologico come unità. Il problema con questo tipo di approccio è che, poiché permane una netta separazione tra il lavoro somatico e il lavoro psicologico, può essere rinforzato il senso di una scissione.
4.     Gli Approcci Stratificati.
Gli approcci stratificati prevedono l’uso concomitante di un approccio corporeo, per esempio la tecnica di Feldenkrais e di un metodo psicoterapeutico. Non è ben delineato nella letteratura ma è utilizzato da alcuni terapeuti che hanno fatto determinati e specifici percorsi. La stratificazione a prima vista sembra essere un approccio olistico, come un duetto in cui il terapeuta lavora simultaneamente sulla struttura corporea e sulle tensioni muscolari del cliente per favorirne il rilascio, ma nonostante ciò si continua ad intervenire sulla persona come se fosse strutturata in componenti separate anche perché il metodo fisico ed il metodo psicologico derivano da fonti teoriche e filosofiche diverse. Stratificare due approcci incompatibili implica infatti due possibilità: la prima è che il terapeuta deve ignorare le loro differenze ed esporre il paziente ad un contrasto esperienziale, ad esempio la differenza tra il modo di considerare la resistenza nell’approccio reichiano, che tenta di demolirla, e quello della psicoterapia della Gestalt, che tiene presente il valore della resistenza; la seconda è che il terapeuta deve alterare fondamentalmente uno dei due approcci stratificati così che esso non risulti più fedele alle sue origini.
5.     Il Metodo Olistico.
L’approccio integrato afferma che vedere una persona come una totalità più grande della somma delle sue parti significa vedere la persona come composta da tutte le parti: corpo, mente, pensieri, sentimenti, immaginario, movimento e così via; ma non come una qualsiasi di queste sue parti. È il funzionamento integrato nel tempo e nello spazio dei vari aspetti del tutto ad essere la persona. Questo tipo di approccio prova a considerare ogni processo (un conflitto, un tema esistenziale, un sintomo fisico) parte di un insieme più vasto, che include gli aspetti somatici e psicologici. Ogni problema psicologico (ad esempio, un conflitto tra parti del sé, un trauma emotivo, un’interazione incompiuta) è parte di una Gestalt più ampia che include l’espressione tipica di quel problema (ad esempio, uno schema di tensione, un certo modo di atteggiare il corpo, inibizioni della respirazione). Ogni sintomo somatico, quale una tensione cronica o una distorsione posturale, è una espressione di una totalità più ampia, che include un problema psicologico, ed è parte dell’espressione di quest’ultimo. In termini di metodo un approccio integrato mira a mettere insieme tutti gli aspetti della persona così che questa possa fare esperienza di sé come di un organismo unitario di cui si fa esperienza nel momento presente, invece di un miscuglio di parti. Tuttavia, anche un approccio di questo tipo deve iniziare dalla condizione esistente di un sé che viene vissuto come composto di parti e lavorare per sviluppare consapevolezza delle parti, su come esse siano tenute separate dall’insieme e per integrare l’esperienza della persona in un senso del sé unitario. Per raggiungere questo fine, innanzitutto c’è bisogno che il paziente capisca il senso di questa integrazione e ne condivida il valore attraverso un sufficiente grado di consapevolezza del corpo, della relazione fra se stessi e le questioni e i problemi della vita corrente e una fiducia di base nella connessione tra processo corporeo e problemi psicologici.
 Ma vediamo ora in maniera più approfondita ciò che abbiamo illustrato finora.

La Vegetoterapia analitica del carattere e la Bioenergetica
Il pioniere delle terapie corporee fu Reich, un allievo di Freud che era particolarmente interessato a due temi essenziali:
1.     alla comprensione della natura della libido (energia sessuale) e alla ricerca della fonte di energia della nevrosi, del suo nucleo somatico.
2.     allo sviluppo dei modi per comprendere e trattare la resistenza dei pazienti al processo terapeutico.
In particolare, per quanto riguarda il secondo punto, Reich notò che ognuno dei suoi pazienti aveva uno stile caratteristico, un modo di agire, e si focalizzò sul modo in cui questo stile sembrava servire come difesa in terapia, come modalità per proteggersi dalle interpretazioni dell’analista e quindi per ostacolare il cambiamento. Denominò tale stile “carattere” o “resistenza di carattere”. Il suo pensiero cruciale fu che la resistenza di carattere non riguardava solo la sfera cognitiva, ma che avesse a che fare con il modo dei pazienti di muoversi, di sedersi, di modulare la voce, di mantenere una postura, di tendere i muscoli, pertanto con tutto quanto concerne l’espressività corporea.
Il suo intervento terapeutico era basato quindi sull’attenzione e su un lavoro sul corpo, che per la prima volta con lui, diventava elemento essenziale del lavoro terapeutico.
Reich considerava come causa delle nevrosi l’energia sessuale bloccata: l’individuo nevrotico mantiene un certo equilibrio vincolando  la propria energia mediante le tensioni muscolari e limitando il proprio eccitamento sessuale.
Un individuo sano non ha limitazioni e la sua energia non è vincolata in un’armatura muscolare. Egli parla infatti di “corazza caratteriale” per indicare tensioni muscolari croniche che incapsulano l’energia libidica, che Reich chiama “energia orgonica”.
Reich chiamava la sua terapia “Vegetoterapia analitica del carattere” e consisteva nella mobilitazione delle sensazioni attraverso la respirazione ed altre tecniche corporee che attivavano i centri vegetativi (i gangli del sistema nervoso autonomo) e liberavano energie “vegetative”. Questo tipo di lavoro terapeutico rappresentava una rottura, dall’analisi puramente verbale al lavoro diretto sul corpo.
L’obiettivo della terapia era che il paziente sviluppasse la capacità di abbandonarsi completamente ai movimenti spontanei ed involontari del corpo. Per far sì che si generasse tale processo era indispensabile lavorare sul respiro del paziente, lasciare che la respirazione avvenisse piena e profonda. Facendo ciò, le onde respiratorie producevano un movimento ondulatorio del corpo, che Reich chiamava riflesso orgasmico.
Secondo Reich la nevrosi, non solo bloccava la capacità di abbandonarsi del paziente, ma vincolando l’energia in tensioni muscolari croniche, impediva che fosse disponibile per la carica sessuale. Egli credeva che l’orgasmo completo scaricava tutta l’energia in eccesso dell’organismo: di conseguenza non c’era più energia per mantenere il sintomo o il comportamento nevrotico.
Per Reich l’orgasmo era una risposta involontaria della totalità del corpo che si manifesta in movimenti ritmici e convulsi. Lo stesso tipo di movimento può verificarsi anche quando la respirazione è completamente libera e ci si abbandona al proprio corpo. In questo caso non c’è scarica dell’eccitamento sessuale perché l’eccitamento non c’è stato, succede questo: ad ogni espirazione la pelvi si muove spontaneamente in avanti, ad ogni inspirazione si muove indietro. Questi movimenti sono prodotti dall’onda respiratoria: un paziente, il cui corpo sia abbastanza libero da avere questo riflesso durante la seduta terapeutica, dovrebbe anche essere in grado di provare l’orgasmo completo nell’atto sessuale, perché emotivamente sano.
Reich sviluppò una grande abilità nel leggere il corpo: sapeva come applicare una pressione tale da scaricare le tensioni muscolari, facendo nascere nel corpo il flusso di sensazioni che chiamava “streamings”(sensazioni di corrente).
Come si evince, il metodo reichiano era basato sul contatto fisico col paziente, cosa che a quei tempi generò polemiche e problemi. Solo dopo alcuni decenni si iniziò a riconoscere l’importanza del toccare come “forma primaria” di contatto ed il suo valore nella situazione terapeutica.
Attraverso la Bioenergetica, il cui capostipite fu Lowen, allievo di Reich, i terapisti venivano preparati ad usare le mani per palpare e sentire la spasticità, o blocchi muscolari, ad applicare la pressione necessaria, a scaricare o ridurre la contrazione dei muscoli e a stabilire un contatto mediante un tocco dolce e rassicurante che dia appoggio e calore.
Sono tanti gli esercizi proposti nel lavoro terapeutico bioenergetico, come quello dell’Arco. L’Arcuatura corretta del corpo consiste nel far combaciare il punto centrale delle spalle direttamente sopra al punto centrale dei piedi: la linea che collega questi punti è un arco perfetto che passa per il punto centrale dell’articolazione delle anche. Quando il corpo è in questa posizione ogni sua parte è perfettamente in equilibrio, l’arco dinamicamente è teso e pronto all’azione ed energeticamente il corpo è carico e pronto all’azione, un flusso di eccitazione passa per tutto il corpo.
Questa posizione dà al soggetto la percezione di essere pienamente integrato, saldamente piantato al suolo con i piedi. A scopo diagnostico è utile per osservare eventuali mancanze di integrazione del corpo, attraverso le tensioni muscolari che si evidenziano. Spesso, infatti, emergono difficoltà ad arcuare il corpo per una rigidità diffusa, per mancanza di flessibilità delle gambe, per la pelvi ritratta.
Al contrario si può verificare un iperflessibilità della schiena e delle gambe, la pelvi troppo spinta in avanti, che manifestano una debolezza muscolare ricollegabile ad una mancanza del senso della spina dorsale.
Un altro disturbo che può emergere è quello della rottura della linea dell’arco, dovuta ad una grave ritrazione della pelvi: il flusso del corpo spezzato rappresenta una frammentazione dell’integrità della personalità (tipica ad esempio dello schizoide e dello schizofrenico). L’esecuzione dell’esercizio mira a sentire le tensioni del loro corpo che ne impediscono la corretta esecuzione, tensioni che posso essere allentate mediante altri esercizi bioenergetici.
Un altro esercizio proposto dalla Bioenergetica è quello del Grounding.
Questo lavoro consiste nel tirar giù un individuo sulla terra ferma, permettergli di essere radicato (grounded), per stabilire un contatto pieno con il suolo che lo sostiene. La maggior parte delle persone pensa di avere i piedi ben saldi al suolo, ma in realtà non è così: molte di esse hanno la tendenza a tenere le ginocchia rigide quando stanno in piedi e, se si chiede loro di flettere le ginocchia, spesso subentra una vibrazione alle gambe che può evocare la sensazione che queste non le reggano.
Per una buona posizione occorre che i piedi sino piantati al suolo non piatti,ma neanche tanto arcuati: le arcate plantari non devono crollare come nei piedi piatti, né essere troppo arcate, segno di spasticità o di contrazione dei muscoli del piede.
Ecco un esempio pratico di Grounding:
Nella posizione grounding i piedi e le gambe hanno un contatto interattivo con la terra, per prendere energia, per scaricare le tensioni, per sentirsi sostenuti e mai traditi, poiché la terra è sempre lì e ovunque a nostra disposizione, poiché la terra è la realtà stabile, è la piattaforma dove si costruiscono le fondamenta della persona.
Stando in grounding l’apertura dei piedi è perpendicolare alle spalle oppure ai fianchi (se sono più larghi), gli alluci sono lievemente convergenti tra loro, per essere in linea con le ginocchia che a loro volta sono leggermente flesse, il bacino è lievemente retratto per agevolare il rilassamento della spina dorsale, la profondità del respiro, e del fluire dell’energia fino alle dita dei piedi.
Le ginocchia rigide provocano una forte contrazione dell’ano, della spina dorsale e della respirazione, non permettono il fluire dell’energia, del sangue e di tutti i flussi corporei, non danno un equilibrio stabile come contrariamente avviene quando le ginocchia sono flesse.
Il corpo, nella posizione grounding, si appropria di una postura solida e radicata nella terra e nella propria interiorità, si rende pronto all’espansione verso il cielo come i rami di un albero il cui tronco ha messo lunghe radici nel sottosuolo.
La terra offre un senso di sicurezza psicofisica stabile, il cielo dona l’energia universale di cui ci nutriamo attraverso il respiro.
Cielo e terra, padre e madre simbolici che nel dare il giusto orientamento nel mondo in cui si sta in piedi, nutrono ed aprono il varco alle percezioni sensoriali di tutte le parti del corpo.
Il principale scopo del grounding è la salute in un corpo vibrante con solide fondamenta, proprio per questo obiettivo ogni classe inizia con molti movimenti dei piedi, delle gambe, della respirazione e dell’orientamento nello spazio.
Nel linguaggio del corpo avere i piedi a terra vuol dire essere in contatto con la realtà, significa che il soggetto non agisce perché spinto dall’influsso di un’illusione, ma essere radicati è l’opposto di essere “appesi”, “fissati”.
Una persona è fissata quando è in un conflitto emotivo che la immobilizza. Un esempio può essere quello di una ragazza che è attratta da un ragazzo e sente di aver bisogno di lui, ma ha paura del suo rifiuto e sente che se si muove verso di lui si farà del male, così resta sospesa, fissata.
 Al livello bioenergetico la fissazione (high-ups) consiste nel ritiro dell’energia dai piedi e dalle gambe, energia che si dirige verso l’alto, il ritiro dell’energia dal suolo. Al livello somatico, un elemento da osservare per capire se c’è una fissazione è l’osservazione della postura della metà superiore del corpo.
 Lowen definisce la più comune “appendiabiti”: spalle rialzate (espressione di paura), petto rigonfio, respiro toracico ed affannoso. Questa postura non si assimila per una singola esperienza, ma spesso è collegata ad esperienze di paura che per lungo tempo il soggetto da bambino ha avuto del proprio padre. La persona nega questa paura e nasce la fissazione: non può avanzare perché ha paura, ma neanche ritirarsi ammettendo di averla, è emotivamente immobilizzata.
Quindi, come si evince, Lowen ha egregiamente continuato il discorso reichiano sull’importanza del lavoro corporeo in terapia, focalizzando la sua attenzione essenzialmente sul linguaggio del corpo e sul lavoro su di esso.
Anche Perls, come lui, attinse dall’innovazione reichiana l’attenzione al corpo nel lavoro terapeutico, tuttavia se ne distaccò per alcune sostanziali differenze.
Ma vediamole più da vicino.
Perls e la Gestalt
Perls considerò  che  la tensione muscolare svolgeva la funzione di repressione degli impulsi e del movimento emotivamente significativo. Egli racchiuse questa visione nel suo concetto di retroflessione: le contrazioni muscolari erano viste come ritorsioni sul sé delle azioni che si volevano effettuare sull’ambiente, pertanto il sistema motorio, perdendo la sua funzione di sistema operativo attivo e connesso al mondo, attraverso la retroflessione diventa il carceriere più che l’assistente dei bisogni biologici fondamentali.
Uno dei punto sui quali Perls si distaccò fortemente da Reich nell’interpretazione dei processi corporei riguardano due aspetti fondamentali:
1.     Perls guardò all’espressione fisica ed al fatto di trattenere l’espressione nel contesto del contatto con l’ambiente finalizzato a soddisfare i bisogni organismici. Egli considerò l’organismo-persona sempre in relazione al suo ambiente e non solo organizzato intorno ai conflitti e agli eventi interiori. In tal modo Perls guardava all’espressione corporea e all’esistenza, alla luce della loro funzione nel contatto con l’ambiente. La retroflessione (inibizione dell’espressione) emergeva dalla necessità di ritirarsi dal contatto di fronte ad una situazione pericolosa.
2.     Perls si interessò al corpo non solo per il suo potenziale di movimento ed espressione, ma anche in termini fenomenologici: si interessò quindi all’esperienze che il paziente aveva del corpo, al suo senso del sé, all’Io dell’esperienza come sé corporeo. Essere in contatto con il proprio sé significa essere in contatto con la propria corporeità, pertanto il primo passo da fare era quella di mettere in contatto il paziente con la propria corporeità, per fare emergere consapevolezze sul proprio sé. Lo scopo di tale lavoro è quello di ristabilire le “funzioni-Io”, dissolvere la rigidità del corpo e l’Io pietrificato (il carattere). Attraverso il pieno contatto con il sintomo nevrotico il paziente è messo nella posizione di dissolverlo.
A differenza di Reich l’enfasi viene quindi posta sulla consapevolezza e sulla sensazione piuttosto che sull’espressione. Inoltre, punto di fondamentale importanza per rilevare una grande differenza tra i due, le tensioni muscolari, le resistenze, i blocchi, che Reich manipolava per distruggerle e sanare il paziente, per Perls non sono elementi da eliminare, in quanto parti dell’Io. Eliminare tali elementi sarebbe come eliminare parti dell’Io della persona. Essi sono invece di fondamentale importanza per il lavoro terapeutico in quanto, mettendo in contatto il paziente con le sue resistenze ed i suoi blocchi e con le sue sensazioni corporee, emergono pensieri, emozioni, convinzioni e, pertanto, rappresentano fonte importante di consapevolezza.
L’intervento su cui si basa la terapia reichiana consiste nella respirazione, in esercizi e pressioni dirette per demolire le resistenze e portare alla luce l’impulso sottostante; l’intervento di Perls consiste in esperimenti che mirano a far emergere un pieno senso di sé, consapevolezze ed espressione, assimilazione di materiale non assimilato, integrazione delle parti tese come parti del sé, per arrivare all’autoregolazione organismica e ad un buon contatto con l’ambiente.
Perls era ugualmente critico nei confronti dei metodi che miravano ad allentare tensioni, a far rilassare o modificare la postura, perché, come sopra detto, essi ignorano i significati emozionali della tensione e della postura ed incoraggiano il senso di una scissione tra il sé ed il copro, invece di mirare ad integrarli.
Una delle critiche che è stata mossa alla terapia della Gestalt è quella di aver trattato l’importanza del corpo come espressione del sé e come materiale e strumento di lavoro terapeutico, ma di non aver poi realmente sviluppato un’ampia gamma di tecniche focalizzate sul corpo, come hanno fatto la terapia reichiana ed altri approcci unicamente somatici  che stanno emergendo in questi ultimi decenni. Inoltre, tale approccio difetta anche di una base esplicita e di un fondamento logico per il lavoro corporeo che fa uso  del toccare.
In realtà nella terapia della Gestalt esiste sicuramente una base per una più completa comprensione dei processi corporei nella terapia, una conoscenza più differenziata del processo e dell’uso della respirazione, una metodologia ed un fondamento logico per l’impiego terapeutico del toccare, una più accurata comprensione dell’uso dell’espressione fisica delle emozioni.
Anzi, è opportuno sottolineare che la terapia della Gestalt è per definizione una terapia del corpo, in quanto terapia olistica, che dà attenzione all’organismo nella sua totalità, ma a differenza di approcci, come quello reichiano, per i quali il corpo rappresenta il punto centrale della terapia, per la Gestalt questo è solo uno degli elementi che costituiscono l’unità organismica.
Gli acting tipici della vegetoterapia sono basati su profonde sollecitazioni nella “corazza”, che portano a  sensazioni dolorose o di rilassamento; per la Gestalt ciò è insufficiente, ai fini di un cambiamento, se non accompagnato da un processo di consapevolezza.
La consapevolezza in terapia si sviluppa su tre livelli: corpo-emozione –mente, solo quando sono presenti  questi tre elementi essa fluisce liberamente e solo se ben armonizzati si arriva ad una piena consapevolezza.
Corpo, emozione e pensiero vivono insieme provocando un vissuto totale di consapevolezza, ciò che Perls definisce ‘piccolo satori’.
Come già detto a proposito della Vegetoterapia reichiana, un blocco può diventare un sintomo fisico: un mal di testa, nausea, tensione agli occhi fino a trasformarsi in una vera e propria malattia: essa si presenta come una figura priva dello sfondo sul quale si è costruita. Quest’ultimo è costituito dai fenomeni fisiologici, emotivi e cognitivi dei quali la persona non ha consapevolezza, da qui l’efficacia di un percorso terapeutico che faccia emergere questo materiale come figura dallo sfondo, in quanto ogni sintomo, ogni malattia, rappresenta una situazione incompiuta che reclama attenzione.
La terapia della Gestalt parte da ciò che appare a livello fenomenologico, da ciò scaturisce l’importanza del corpo espressione visibile, sede dell’ovvio. Facendo oscillare l’attenzione sugli aspetti corporei e su libere associazioni è possibile ristabilire il contatto con lo sfondo, emergono così vissuti dolorosi, sensazioni nuove, sofferenze evitate e solo attraverso questa via si può giungere ad un cambiamento.
Tutte le tecniche gestaltiche di esagerazione e repressione hanno lo scopo di ristabilire tale contatto. Spesso proprio tramite un lavoro di consapevolezza di un gesto o di una tensione si arriva a rompere il perpetuarsi di comportamenti disfunzionali e dolorosi.

Uno sguardo alla tecnica
Per ristabilire un contatto con le parti del sé e far affiorare quella consapevolezza  tanto ricercata in terapia bisogna lavorare su più livelli. Un primo livello da superare all’interno di una psicoterapia è quello di risensibilizzare il sé del paziente prima ancora di poter operare ad un livello più profondo. Ovviamente diamo per scontato che qualsiasi tecnica utilizzata da sola non è sufficiente. Sono in egual modo importanti il contesto terapeutico e la relazione in cui questo avviene. Senza tale relazione e il contatto del terapeuta con le proprie sensazioni e i propri sentimenti, la tecnica terapeutica risulta meccanica e piatta.
Il primo passo verso una risensibilizzazione del paziente si attua attraverso il lavoro sulla “concentrazione”. Il processo essenziale è quello di sostenere il paziente a concentrarsi sull’esperienza del corpo e di sorreggere abbastanza a lungo quella concentrazione affinché la sensazione diventi chiara e differenziata. Questo viene fatto commentando le distrazioni che il paziente crea e con domande del tipo “Cosa senti in questo momento?”, oppure “Resta in contatto con questa cosa un altro poco”; o ancora “Cosa ti sta dicendo il tuo piede?” (ad esempio di una persona che muove ossessivamente il suo piede). L’obiettivo è quello di spostare l’attenzione dagli aspetti cognitivi all’esperienza del corpo e consentire che l’esperienza diventi importante. Ovviamente è importante far capire al paziente che quanto riferisce si fonda sulla sua sensazione reale e presente, nel suo qui ed ora, e non su opinioni e definizioni precostituite o su quanto il soggetto crede di stare sentendo. Egualmente importante in questa fase è lo sviluppo del linguaggio per descrivere l’esperienza del corpo con specificità. Poiché la nostra esperienza interiore non è pubblica e se ne parla raramente, ed è spesso percepita in maniera inesatta, frequentemente non abbiamo stabilito una relazione tra un linguaggio accurato e la nostra esperienza. Senza un linguaggio le nostre sensazioni diventano ancora più difficili da discriminare l’una dall’altra. Molto importante, infatti, quando il paziente descrive una sensazione è cercare di stimolarlo anche suggerendo definizioni inaccurate, ma con il vantaggio di fornire al soggetto qualcosa da rifiutare e invogliarlo a trovare il proprio modo di descrivere le sensazioni. Ad esempio se un soggetto riferisce di “sentirsi stanco”, si può chiedere “Dove ti senti stanco?; In che modo ti senti stanco in questo momento?; È una stanchezza pesante?; Fa sentire svuotati o semplicemente sfiniti?” e così via… Ancora si può cercare di accrescere la consapevolezza delle proprie sensazioni esagerando le tensioni, per acquisire una descrizione verbale dell’esperienza più ricca e completa. L’intensificazione dà anche inizio al processo di appropriazione in quanto se il soggetto è in grado di eseguire il compito consapevolmente, può anche cominciare a sperimentare che è lui stesso a provocare delle tensioni.
Un altro aspetto da curare è la respirazione: quest’ultima infatti è fondamentale quando interveniamo per sviluppare sensazioni o per vivere di più le esperienze. Per sostenere la sensazione non si richiede una respirazione particolarmente profonda o laboriosa, né nessun grande “onere”. Quello che si richiede invece è un processo di inspirazione ed espirazione continuo e regolare, un tipo di respirazione semplice e naturale, in assenza del quale il corpo è bloccato e la consapevolezza degli eventi corporei risulta molto impoverita.
Un ultimo aspetto da considerare nel processo di risensibilizzazione è la rivitalizzazione del corpo. È quando la desensibilizzazione è divenuta strutturale, attraverso la tensione cronica e l’insensibilità del tessuto, che si rende necessario un lavoro che sia maggiormente centrato sul corpo. La consapevolezza da sola non può ravvivare queste aree limitate strutturalmente nella loro sensitività, ma attraverso esperienze come il movimento libero e spontaneo, l’aerobica, la bioenergetica, lo Hatha yoga, la danza e le forme di movimento delle arti marziali, quali il T’ai Chi Ch’uan, possono essere utilizzate per stimolare ed aprire i tessuti corporei. La cosa importante qui è che l’esercizio e i movimenti non siano adoperati rigidamente o meccanicamente. In qualsiasi intervento fisico, sia esso toccare, usare il movimento o il lavoro sul respiro, l’interesse del terapeuta della Gestalt è nell’esperienza che si genera al momento piuttosto che attenersi a delle regole prestabilite.
Ristabilire la sensazione del corpo attraverso il lavoro sulla desensibilizzazione può contribuire notevolmente al nostro processo di guarigione, tuttavia da sola la consapevolezza non è sufficiente a guidare il nostro funzionamento. Molto utile risulta poi esplorare i processi sottostanti e, affinché avvenga un cambiamento completo è necessario che anche il comportamento cambi, cioè che la consapevolezza venga tradotta in azione.

Il corpo nelle discipline contemporanee
Per una più completa trattazione dell’argomento, risulta opportuno soffermarsi su alcune delle discipline che stanno emergendo in questi ultimi tempi, già accennate precedentemente, i cui principi sono perfettamente in linea con quelli della terapia della Gestalt e pertanto possono rappresentare dei buoni spunti di integrazione per un lavoro terapeutico.
Uno di questi è il Metodo Feldenkreis.

Il metodo Felderkreis
Nel libro “L’Io Potente”, Feldenkreis mette in luce le principali linee del suo pensiero, strettamente connesse, come si potrà evincere, a quelle della terapia della Gestalt e dell’Analisi Transazionale.
Feldenkreis, infatti, sottolinea come schemi abituali siano riattivati continuamente da associazioni mentali astratte, da stati vegetativi del corpo, da schemi muscolari e schemi posturali, tutti formatisi, in un modo strettamente personale, nel corso della storia del soggetto. Aggiunge, inoltre, che senza poter apprendere un miglior metodo di auto-direzione, ci si trova ad usare il vecchio schema abituale, a ricreare o a mettersi in condizioni che si è in grado di gestire, anche se dolorose. Perciò, per portare il soggetto ad un cambiamento, oltre a rifiutare mentalmente la vecchia abitudine, occorre coltivare un nuovo insieme di abitudini, di modo che non ci sia più bisogno di ripristinare quelle scartate. Questo concetto richiama chiaramente quello di Copione perché pone l’accento al ripetersi di schemi mentali appresi nei primi anni di vita che, seppure disfunzionali,  caratterizzano poi tutta la vita di una persona, nonostante portino sofferenza, perché si tratta comunque di una sofferenza a lei familiare, nota.
L’obiettivo della pratica di Feldenkreis è quello di far ampliare al soggetto la gamma di possibili schemi mentali, attraverso tecniche corporee. Feldenkreis dà al soggetto l’opportunità di allargare i suoi orizzonti e, facendogli cadere convinzioni e rigidi schemi, gli dà il permesso di osare, di conoscere nuove sensazioni, nuove percezioni di sé.
 Il permesso di cui ha bisogno la persona trova la sua corrispondenza in quello che il terapeuta dà in seduta al paziente. Anche qui, quindi, si può evidenziare un forte nesso tra tale disciplina e la terapia della Gestalt. Essa, così come l’Analisi Transazionale, sottolinea quanto sia importante per il paziente ricevere “permessi” dal terapeuta: il paziente che in terapia scopre parti di sé, emozioni, sensazioni, pulsioni che non si è mai concesso perché non rientrano nei suoi schemi emozionali e comportamentali appresi durante l’infanzia (in quanto frustrati da messaggi genitoriali), grazie all’“accoglienza” terapeutica si sente libero di esprimere un sé più pieno ed autentico.
Attraverso esercizi corporei Feldenkreis stimola il soggetto a superare resistenze, blocchi, rigidità fisiche (e quindi mentali) portandolo pian piano ad assimilare la “postura corretta”, che secondo Feldenkreis è una questione di crescita emotiva e di apprendimento, e consiste nel riconoscere, nella totalità della situazione (ambiente, mente e corpo), una relazione sottoforma di sensazione corporea. In altri termini la postura corretta è quella che permette al soggetto di muoversi ed agire nella maniera più funzionale nel suo ambiente e nel qui ed ora. Proprio perché è un concetto che ha a che fare con l’azione, Feldenkreis parla di attura più che di postura corretta: il modo in cui un’azione viene compiuta al meglio da un essere umano.
A questo proposito egli sottolinea che non esiste UNA attura corretta, ma una vasta gamma, che è bene far conoscere al soggetto per far sì che questi scelga quella migliore per lui in un dato momento e che non ripeti quindi l’unica, spesso disfunzionale, che conosce.
Tuttavia parla di 4 punti generali che riguardano l’attura corretta:
1.     ASSENZA DI SFORZO: nell’azione ben fatta la sensazione di sforzo è assente, indipendentemente dall’effettivo dispendio di energia.
2.     ASSENZA DI RESISTENZA: la sensazione di resistenza è prodotta da impulsi tra loro contraddittori che arrivano ai muscoli volontari scheletrici. In questi casi, al corpo viene impedito di aggiustarsi al miglior allineamento da un atto volontario, così abituale che la persona vi ritorna senza nemmeno metterne in dubbio l’adeguatezza. La questione della resistenza è importantissima perché, ignorandola, il soggetto continua ad agire contro se stesso mentre è convinto di lottare per superare difficoltà oggettive. Inoltre senza la consapevolezza della resistenza non è possibile sbarazzarsene.
3.     PRESENZA DELLA REVERSIBILITÀ: questo è l’aspetto principale dell’attura corretta: in ogni istante o stadio di un atto corretto, questo può essere fermato, sospeso o invertito senza nessun preliminare cambiamento di atteggiamento e senza sforzo.
4.     RESPIRO E POSTURA SCORRETTA: trattenere il respiro è il segno più evidente di postura scorretta. La maggior parte delle persone tendono a trattenere il respiro. La loro immagine corporea è tale che, prima di parlare o di iniziare un qualsiasi movimento, devono produrre un riarrangiamento preparatorio della gola, del torace e dell’addome. Gli effetti ricadono sull’equilibrio acido-basico del sangue. Basti pensare che, in condizioni di estrema alcalinità del sangue, i muscoli si contraggono al minimo stimolo esterno o all’inizio di qualsiasi atto e si instaura la tetanizzazione. Se il sangue è estremamente acido, come ad esempio nel diabete, non è possibile evocare alcuna risposta muscolare, c’è uno stato di coma.
Feldenkreis, anche a questo proposito sottolinea che non si insegna IL modo corretto di respirare, ma tutti i possibili modi di farlo.
L’effetto finale è che in ogni situazione la struttura si aggiusta nel miglior modo possibile perché si diventa consapevoli di “contrazioni parassitarie”, che si mantengono, non perché abbiano uno scopo, ma solo per effetto di un’ abituale attura appresa insana.
Anche a questo punto sembra opportuno focalizzare l’attenzione su un altro aspetto che accomuna il pensiero di Feldenkreis e quello che caratterizza la terapia della Gestalt: come Feldenkreis parla di contrazioni parassitarie, intendendo quegli schemi mentali, emotivi, espressivi appresi durante l’infanzia, manifestati attraverso il corpo, che coprono tutt’una serie di altre possibilità espressive di una persona, anche la Gestalt  parla di meccanismi parassitari e più precisamente di emozioni parassitarie per indicare quelle manifeste, apprese durante l’infanzia, sotto le quali si celano quelle naturali. Per entrambi gli esponenti il lavoro da fare è quello di far emergere le emozioni, le sensazioni, le azioni, i movimenti più spontanei, autentici, naturali dell’essere umano.
Un esempio pratico della tecnica di Feldenkreis è il seguente: dalla posizione originale supina, sollevare gambe ed i fianchi dal pavimento ed appoggiare il peso sulle spalle, immobili, nel modo più confortevole in cui si riesce a farlo. Osservare l’atteggiamento, allo scopo di confrontarlo poi con quello che si assumerà successivamente. Liberare il basso addome dalla tensione non necessaria e lasciare che il respiro prenda il proprio ritmo pensando ad un respiro calmo. Restare in questa posizione per circa un minuto, si instaurerà un respiro uniforme.
È possibile che l’irrigidimento parassitario sia dovuto ad un movente che ci induce ad essere rigidi, o forse all’idea di essere vecchi, o al timore di una debolezza dei muscoli del collo, o a qualsiasi altra motivazione. Inibire semplicemente la motivazione estranea, attraverso una chiara proiezione dell’idea di essere liberi da tensioni, fa aumentare in alcuni secondi l’ accentuazione della curva della colonna e a ciò si accompagna spesso la scoperta di qualche motivo personale dietro alla rigidità fino a pochi istanti prima non riconosciuta.
Ora, ad ogni espirazione, le gambe si muovono verso la testa e si allontanano dalla testa ad ogni inspirazione. Basta trattenere il respiro, come quando ci si aspetta un dolore o un pericolo, per far sì che ci si irrigidisca. Imparando ad inibire questa motivazione, il corpo rotola ancora più indietro.
Per agevolare la flessione del corpo, si può iniziare a toccare il suolo con un sol piede, ben alla destra della testa e poi con  l’altro piede ben a sinistra della testa.
Dopo tale esplorazione, è possibile toccare ogni punto facendo compiere al piede un ampio arco di circonferenza, poi unire i piedi proprio al di sopra della testa.
A questo punto è importante memorizzare la sensazione del corpo, semplicemente ripristinando la sensazione o immagine corporea memorizzata: una volta che il corpo è tornato disteso nella posizione supina, riportarlo nella flessione completa appena appresa. Proiettando chiaramente l’immagine mentale del corpo libero dall’interferenza di contrazioni lungo tutta la colonna vertebrale, è possibile piegarsi fino al punto di toccare il suolo con il dorso dei piedi.
Coloro che hanno l’atteggiamento di “non sono capace”, “è difficile”, “sono troppo vecchio”, sono invitati ad aggirare queste motivazioni parassitarie, considerando solo le istruzioni necessarie per compiere l’azione desiderata.
Per portare la persona a rendersi conto emotivamente della disfunzionalità dei suoi schemi mentali, bisogna infrangere le sue resistenze. Tuttavia, un punto fondamentale su cui soffermare l’attenzione, è che tale rottura viene fatta direttamente attraverso il corpo e non attraverso il linguaggio; inoltre non si chiede al soggetto di rinunciare al vecchio schema, ma ampliando la sua gamma di possibilità, lo si mette in condizioni di fare una scelta più libera, non più quella compulsiva legata ad un’unica alternativa.
Pertanto il metodo Feldenkreis si basa sul dare per prima cosa i mezzi al soggetto, così che la compulsività viene abolita, la resistenza diventa conscia, spesso sotto forma di un’improvvisa intuizione. In altri termini, la resistenza si risolve facendola diventare non più necessaria.
Questo punto richiama molto l’approccio della terapia della Gestalt verso le resistenze, fattori, come si è già detto, che scemano pian piano attraverso un percorso di consapevolezza e non attraverso manipolazioni esterne e di forte impatto che mirano alla loro distruzione.
Le tecniche di Feldenkreis mirano a correggere e riformare l’uso generale di sé, mirano quindi ad un’integrazione più piena del sé, presupposto essenziale per il benessere dell’individuo.
Feldenkreis afferma inoltre che il benessere individuale non può prescindere da quello sociale e viceversa, pertanto oltre l’integrazione individuale è strettamente connessa con quella dell’individuo nell’ambiente. Una buona integrazione sociale richiede la consapevolezza che il nostro benessere dipende dagli altri.
A questo proposito è interessante presentare un’ulteriore disciplina che sta emergendo in questi ultimi anni e che fonda i  suoi principi proprio sull’importanza di quest’ultimo punto: la biodanza.

La Biodanza
Origine della Biodanza
«L’Arte ci è stata data per non morire di Verità»
Nietzsche

Dagli anni ’50 si è iniziato a parlare di arteterapia come forma di terapia alternativa. L'arteterapia può essere definita come l’insieme dei trattamenti terapeutici che utilizzano come principale strumento il ricorso all’espressione artistica allo scopo di promuovere la salute e favorire la guarigione, e si propone come una tecnica dai molteplici contesti applicativi, che vanno dalla terapia e la riabilitazione al miglioramento della qualità della vita. Le risorse utilizzate sono le potenzialità che ognuno di noi possiede, chi più chi meno, di elaborare il proprio vissuto e di esprimerlo creativamente; dove educare sta per e-ducere, cioè portar fuori e, nella pratica terapeutica e riabilitativa, portar fuori dal buio verso una maggiore conoscenza e consapevolezza. Il focus dell’arteterapia, più che sul prodotto artistico finale, è sul processo creativo in sé. Ciò che è importante è soprattutto l’esprimersi, il creare. L’atto di produrre un’impronta creativa, infatti, permette all’individuo di accedere agli aspetti più intimi e nascosti di sé, di contattare ed esprimere le emozioni più recondite e spesso inaspettate, e di sperimentare e potenziare abilità spesso ignorate o inutilizzate. In questo senso il processo creativo, al di là del contenuto e del risultato finale, è già terapeutico in sé.

All’interno di questo giovane panorama terapeutico ai fini della nostra trattazione ci concentreremo sulla Biodanza per la naturale connessione che questa forma di terapia ha con il corpo. Il prefisso “bio” deriva dal greco bios, che significa vita. Il senso primordiale della parola “danza” è “movimento naturale”, connesso all’emozione e pieno di significati. La metafora che ne deriva è: Biodanza, la danza della vita.
La Biodanza è un sistema di integrazione umana, di rinnovamento organico, di rieducazione affettiva e di riapprendimento delle funzioni originarie della vita. La sua metodologia consiste nell’indurre vivencia integranti attraverso la musica, il canto, il movimento e delle situazioni di incontro di gruppo.
La vivencia è un termine intraducibile in italiano che rappresenta “un’esperienza vissuta con grande intensità da un individuo nel momento presente, che coinvolge la cenestesia, le funzioni viscerali ed emozionali”. La vivencia conferisce all’esperienza soggettiva di ogni singolo individuo la palpitante qualità esistenziale del vissuto - qui ed ora -.
Nato nel 1965 presso l’ospedale psichiatrico di Santiago del Cile, il suo inventore Rolando Toro propose esperienze di danza con dei soggetti psichiatrici nell’ottica di “umanizzare la medicina” secondo le nuove concezioni proposte da Carl Rogers. Durante queste sessioni di danza iniziò a notare che alcune musiche e movimenti provocavano in loro stati di dissociazione ancora più gravi, mentre altri tipi rinforzavano il senso della propria identità e facevano sì che i soggetti aumentassero la loro comunicazione e migliorassero il loro giudizio della realtà.
Da qui si iniziò a prefigurare un continuum tra identità e trance, sostituito successivamente dal continuum identità/regressione. Ai soggetti psicotici davano benessere esercizi e musiche appartenenti alla sfera dell’identità, mentre al contrario con persone stressate, tese, angosciate o sofferenti di disturbi psicosomatici (ad esempio ipertensione arteriosa, ulcera gastrica ecc.) esercizi appartenenti alla sfera della trance/regressione migliorava sensibilmente il loro stato fungendo da ansiolitici.
Successivamente l’approfondimento teorico e pratico di questo modello ha portato ad un modello contenente, oltre all’asse orizzontale identità/regressione, anche un asse verticale e le “cinque linee di vivencia”, che rappresentano l’espressione e l’integrazione del potenziale genetico umano.
Per una comprensione completa del modello teorico della biodanza si rimanda ai testi di riferimento. Per la nostra trattazione prenderemo in considerazione solamente gli aspetti più pratici che si collegano alla parte esperienziale.

Lo scopo della Biodanza
Il presupposto teorico su cui si basa questa forma di terapia, è quello in base al quale tensioni muscolari e modalità posturali e di movimento (uso dello spazio, tempi, ritmi, etc.) riflettono tensioni e modalità psicologiche; per cui, lavorare per prendere consapevolezza e sciogliere tali tensioni fisiche comporta l’entrare in contatto e il risolvere i blocchi emotivi e psicologici. La danza può essere vista come un dramma, in cui il linguaggio del corpo sostituisce quello verbale. L’obiettivo principale è mettersi in contatto con il proprio corpo e dare ascolto alle emozioni che vi albergano, ma i benefici dell’uso del movimento e della danza si estendono a più livelli. Ad un livello puramente fisico permette di ampliare il repertorio motorio e migliorare la coordinazione ed il tono muscolare, ad un livello psicologico si interviene sulle modalità di espressione di sé e sui livelli di adattamento alla realtà, ad un livello sociale, infine, si lavora sul modo di interagire con il gruppo e dunque sulle capacità comunicativo-relazionali.
Nello specifico, la ricerca di sé in Biodanza si compie attraverso una sensibilizzazione profonda alla vita che è in se stessi, nell’altro e nella natura. Rolando Toro non propone soluzioni ai misteri che permeano l’esistenza umana, ma la possibilità di condividerli nell’amore. Pensa sia necessario agire sulla parte sana di ciascuno, e non sui sintomi isolati; danzare e mettere musica nei nostri movimenti; integrare l’intelligenza con l’affettività e approfondire il nostro legame originario con la vita. Per raggiungere questi obiettivi ha formulato una metodologia basata sul risveglio della funzione primordiale di connessione con la vita, funzione che è intrinseca di tutti gli esseri viventi e che consente a ciascun individuo di integrarsi con se stesso, con la specie, e con l’universo.
In Biodanza il processo di integrazione si attua mediante la stimolazione della funzione primordiale di connessione con la vita, che consente a ciascun individuo:
1.     L’integrazione a sé che consiste di riscattare l’unità psicofisica;
2.     L’integrazione al simile che consiste nel restaurare il vincolo originario con la specie come totalità biologica;
3.     L’integrazione all’universo che consiste nel riscattare il legame primordiale che unisce l’uomo alla natura e nel riconoscersi parte di una totalità maggiore, il cosmo.
Questa stimolazione si attua attraverso una serie di esercizi. L’esercizio della Biodanza si pone nell’ottica dell’incontro. Esso ha come impegno lo sviluppo e il nutrimento dei legami che uniscono a sé, all’altro, al mondo. Attraverso l’esperienza singolare del corpo e della sensibilità. L’esercizio della Biodanza non lega il corpo allo sforzo e alla prova di sé, non assegna al movimento il ruolo di supporto vitale del pensiero, ma mette in scena, nella sua semplicità, nella sua purezza, il corpo vivente. Il corpo prolunga nello spazio del gesto l’emozione e la condivide; esprime la vita che lo sostiene; è la totalità dell’essere sotto forma di sensibilità.
Gli esercizi tendono a stimolare l’intero potenziale genetico umano attraverso le “5 linee di vivencia”:
1.     Linea della vitalità: legata ad alcuni indici visibili come la facilità a ridere; la forza degli istinti; l’agilità dei movimenti; il suono e l’espressione della voce, la luce e l’intensità dello sguardo, l’armonia e la potenza dei gesti. Gli indici di vitalità di un individuo, tuttavia, non sono costanti; essi variano sensibilmente nel corso dei vari periodi della vita. Le motivazioni esistenziali come l’amore e la creatività, così come il cambiamento di ambiente e, in particolare, il contatto con la natura, hanno un’influenza straordinaria sul valore di questi indici, che, indubbiamente, non sono nient’altro che l’espressione tecnico-sperimentale dello stile di vita e della realtà dell’“essere-al-mondo”. Il campo della vitalità si estende anche alla cosiddetta “vitalità esistenziale”, la cui mancanza porta a conflitti emotivi, difficoltà di comunicazione, assenza di una visione globale dell’esistenza ecc.
2.     Linea della sessualità: Solitamente tendiamo a trascurare il nostro corpo, gli diamo poco amore e sottostimiamo i suoi segnali. Tramite esercizi di stimolazione di questa linea scopriamo che il corpo è gentile, è tenero e possiede un’armonia meravigliosa, è voluttuoso e intrinsecamente bello. Rafforzare la propria sensibilità per trovare le strade che conducono al piacere fa parte dell’apprendimento proposto in Biodanza. Imparare a gioire di tutti i grandi e piccoli problemi della vita è la cosa più importante. Il piacere della danza, nel senso che gli da la biodanza, è la prima apertura. Imparare a sentire la musica in stato di trance ne è un’altra. Diventare coscienti dei piaceri quotidiani è la terza strada. Sviluppare tutte le possibilità dell’erotismo è la quarta. Non esiste vero piacere che non provenga dalla profondità e dallo slancio naturale verso la vita.
3.     Linea della creatività: legata all’istinto di esplorazione e all’impulso di innovazione presente negli organismi viventi, essi facilitano l’adattamento e culminano nella creatività umana. La civiltà reprime la nostra funzione naturale della creatività che andiamo invece a stimolare con questi esercizi.
4.     Linea dell’affettività: per affettività si intende uno stato di affinità profonda verso gli altri esseri umani, capaci di originare sentimenti di amore, amicizia, altruismo, maternità, paternità, solidarietà. Senza dubbio anche sentimenti opposti come l’ira, le gelosie, l’insicurezza, l’invidia possono considerarsi componenti di questo complesso fenomeno. Tuttavia l’affettività non è soltanto l’espressione di un sentimento individuale o di una forma sottile di comunicazione, ma anche la manifestazione di messaggi relazionali preesistenti in ciascuno di noi che predispongono i legami affettivi tra gli esseri umani. Il fatto che la sola presenza di una persona provochi modifiche nel tono muscolare e a livello neurofisiologico indica che esiste un continuum affettivo tra gli esseri umani. La percezione dell’altro provoca risposte che abbracciano la totalità dell’organismo, e non solo le emozioni.
5.     Linea della trascendenza: per trascendenza si intende il superamento della forza del proprio Io e la possibilità di andare più in là dell’autopercezione, per identificarsi con l’unità della natura e l’essenza delle cose. L’impressione di legame intimo con la natura e con il prossimo è un’esperienza culminante che si prova poche volte nella vita. Provarla anche una sola volta permette di cambiare il proprio atteggiamento di fronte a sé e agli altri. Sapere con certezza che non siamo isolati, che partecipiamo al movimento unificante del cosmo, è un’esperienza sufficiente per spostare la nostra scala di valori. Ma questo “sapere con certezza” non è intellettuale: è commovente e trascendente.



Esercizi di Biodanza
Gli incontri di Biodanza ruotano intorno alla figura del facilitatore o del didatta. Questi ultimi seguono un ciclo triennale di studio e di apprendimento definito “vivenciale” che dà molta importanza alla dimensione personale dell’esperienza e delle emozioni. Gli esercizi realizzati nel corso delle sessioni di Biodanza inducono stati di coscienza particolari (espansione della coscienza provocata dalle endorfine la cui produzione è stimolata dagli esercizi sul sistema parasimpatico) che possono accelerare lo sviluppo spirituale.
Purtroppo la diffusione del sapere della Biodanza raggiunge un carattere quasi “settario” in quanto c’è il massimo riserbo su questa disciplina la cui conoscenza si acquisisce solo tramite la frequenza di corsi riconosciuti. Anche le risorse open source come la rete globale sono quasi del tutto prive di approfondimenti più specifici e lo stesso libro utilizzato per la stesura di questo breve trattato, nonostante sia stata una lettura interessante, è carente su molti aspetti riguardanti comunque la tecnica più da vicino.
Si rimanda ad altre fonti per ulteriori approfondimenti.

Bibliografia
Feldenkreis, M.,
2007, L'Io Potente, Roma, Casa EditriceAstrolabio, Ubaldini Editore.

Ferrara, A.,
1988, “La psicoterapia della Gestalt e il corpo”, Quaderni di Gestalt n.6/7, pp. 151-156.

1997, Body Process. Il lavoro con il corpo in psicoterapia, Milano, Franco Angeli.

Lowen, A.,
2007, Bioenergetica, Milano, Feltrinelli Editore.
2008, Il linguaggio del corpo, Milano, Feltrinelli Editore.

Matuk, E.,
2007, La Biodanza, Milano, Edizioni Red.

2011, Psicoterapia della Gestalt contemporanea. Esperienze e strumenti a confronto, Milano, Franco Angeli.

Sitografia


Articolo scritto a quattro mani da:

Dott.ssa Ambra ADAMO
Psicologa 
Psicoterapeuta in formazione e supervisione ad orientamento Gestaltico e Analitico Transazionale 
Studio Privato : Via Tino da Camaino n° 9, Napoli
Cell.: 366271592
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