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martedì 1 maggio 2012

L’illusione dell’eudaimonìa e la magia del gelos

L’eudaimonìa[1] è lo scopo più elevato
di una vita vissuta bene.
Aristotele


     Quando mi sono accinto a svolgere questo approfondimento riguardante le emozioni, sono rimasto deluso e irritato dal fatto che esistono poche ricerche su quanto mi interessava.
Comincio da un fatto curioso: lo studio delle emozioni in sé è stato per lungo trascurato dalle scienze cognitive che hanno intrapreso la più grande ricerca scientifica mai avvenuta sulla storia della mente. Per molto tempo trattarono la mente come un computer e si interessarono solamente del come le persone o le macchine risolvano problemi logici o giocano a scacchi, trascurando del tutto l’interesse del perché le stesse persone siano felici o tristi. Successivamente tentarono di rimediare ridefinendo le emozioni come freddi processi cognitivi, spogliandole di ogni passione.
     Tuttavia, sembra che le emozioni che suscitano più interesse, per la scienza e in generale, sono le emozioni tristi, in special modo l’ansia, la paura e la rabbia e la tristezza correlata alla depressione.
Poco o nulla quasi è stato fatto per le emozioni positive quali la gioia e la felicità.
Anzi, se li analizziamo attentamente fra i concetti di “gioia” e “felicità” c’è anche un certo tipo di somiglianza e sovrapposizione semantica. Quindi, anche quando si tratta di designare le emozioni positive piuttosto che quelle negative il linguaggio delle emozioni è meno ricco, con notevoli ambiguità terminologiche.
     È stata spiegata questa differenza linguistica in termini di minor valore funzionale: alcuni sostengono che la descrizione particolareggiata di un’emozione positiva serva esclusivamente a rafforzare i legami affettivi. Al contrario i termini associati ad emozioni negative assolvono a numerose funzioni essenziali per la sopravvivenza, come chiedere aiuto, descrivere situazioni di pericolo, esprimere minacce e così via.
Cercherò con questa breve ricerca di ampliare un po’ il potere che le emozioni positive possono avere rispetto a quelle negative nella nostra vita quotidiana ma prima di fare ciò è importante almeno tentare di fare chiarezza espositiva differenziando tra i diversi termini legati a questi sentimenti.
     Partiamo con il concetto di felicità. La felicità è diversa dal piacere edonico e nonostante esistano molti punti di contatto tra i due concetti, la felicità è legata a fattori quali l’esperienza delle proprie abilità e delle opportunità di successo, la combinazione dei fattori emotivi da quelli cognitivi e la tensione ideale verso il raggiungimento delle proprie mete. Esso è uno stato emotivo di benessere vissuto in modo complessivo e distaccato dall’esperienza immediata.
La gioia, invece, è un’emozione positiva improvvisa e piuttosto intensa, che si manifesta nelle sue forme caratteristiche in seguito alla gratificazione dei bisogni essenziali già esistenti nei bambini appena nati, e appare come l’emozione che segue il soddisfacimento di una richiesta o la realizzazione di un desiderio. Anch’essa infatti è diversa dal piacere (come il mangiare, il sesso, il contatto sociale) e non è affatto legata ad esso. Caratteristiche della gioia, infatti, non è solo l’esperienza del piacere, ma è anche necessaria una certa dose di sorpresa e di attivazione.
L’allegria è uno stato d’animo di intensità moderata, che può sussistere senza particolari motivi; può essere un tratto del temperamento o uno stato emotivo percepibile e di durata limitata.
L’euforia è uno stato emotivo intenso in cui è presente una grossa componente fisica, che si manifesta non solo con i segni caratteristici dell’attivazione emozionale (accelerazione del battito cardiaco, aumento della sudorazione, irregolarità del respiro ecc.) ma è specificamente accompagnata da iperattività, fluidità verbale e ideativi, socievolezza generica e sentimenti di fiducia in sé e negli altri.
La contentezza è uno stato emotivo e cognitivo che deve avere un contenuto preposizionale, cioè è di preferenza riferito ad un episodio particolare. Può essere di intensità variabile ed essere connessa a qualche evento esterno e/o a delle autovalutazioni positive; in quest’ultimo caso può chiamarsi orgoglio.


Il delirio dell’illusione


Non separarti dalle illusioni.
Quando se ne saranno andate,
 può darsi che tu ci sia ancora,
 ma avrai cessato di vivere.

Strappa all'uomo medio le illusioni con cui vive
 e con lo stesso colpo gli strappi anche la felicità.


     Nel ricercare materiale a sostegno della mia tesi, mi sono imbattuto in un contro intuitivo articolo ed è da qui che voglio partire con la mia argomentazione.
In quest’articolo Lazarus iniziò a riflettere sul fatto che la negazione (il rifiuto di affrontare la realtà) e l’illusione (una visione falsata del reale) potevano avere la loro utilità nel lottare con successo contro lo stress, e che, in certe situazioni, potevano risultare effettivamente come la più salutare delle strategie.
La letteratura psicologica classica ha sempre portato come stendardo della salute mentale un accurato “esame di realtà”. Vivere una vita nella sua interezza significa guardare in faccia la verità, anche quando essa è dolorosa. I clinici credevano anche che l’autoillusione fosse patologica, forse perché incontravano solo persone che avevano difficoltà a far fronte alla verità sull’origine dei loro problemi. Per questo motivo è divenuta diffusa opinione clinica quella secondo cui la negazione conduce alla patologia.

Ibsen Henrick

Paradossalmente, i poeti, i commediografi e i romanzieri hanno sempre detto esattamente il contrario: abbiamo bisogno delle nostre illusioni[2].
     Nelle sue ricerche, Lazarus indagò sul modo in cui le persone affrontano le crisi della vita e scoprì che l’illusione e l’autoillusione possono avere un valore positivo nell’economia psicologica di un individuo.
Se ci pensiamo bene anche noi, infatti, notiamo che il filo della nostra vita viene tessuto almeno in parte da illusioni e credenze non verificate. Per esempio vi è l’illusione collettiva che la nostra società sia libera, morale e giusta, cosa che naturalmente non è sempre vera. Vi sono poi le infinite opinioni di tipo idiosincratico che la gente ha su se stessa (per esempio che siamo migliori della media, o che siamo condannati a fallire, oppure che il mondo sia una benigna trama cospiratoria o che sia strutturato a nostro svantaggio). Opinioni simili passano spesso anche da padre in figlio senza mai essere messe in discussione.
     A dispetto della stabilità con cui tali opinioni si conservano, esse hanno un fondamento solo modesto o inesistente nella realtà. Ciò che per uno è una credenza, per un altro può essere un miraggio. Di fatto, tuttavia, pilotiamo almeno parzialmente la nostra vita con le illusioni e le autoillusioni che le danno sostanza e significato[3].
     La negazione e l’illusione sono strettamente connesse: la negazione dei fatti prepara la strada all’illusione; l’illusione dà corpo alla speranza, e questa è salutare.
Alcuni casi di negazione estrema, ovviamente, possono essere pericolosi e rischiano di far scivolare il soggetto in una patologia di tipo psicotica dove c’è un totale rifiuto della realtà; tuttavia, ben moderata questa modalità di approccio alla realtà può dare i suoi vantaggi.
Facciamo degli esempi e soffermiamoci sul modo in cui la gente affronta gli ostacoli della vita quotidiana. Le persone che si trovano a fare i conti con i piccoli stress di ogni giorno ritengono di avere un controllo sul proprio ambente maggiore del vero; fanno predizioni sul futuro che corrispondono da vicino alle loro speranze e molto meno a quelle che sono le probabilità oggettive, e così via. Per esempio, la grande maggioranza delle persone crede che farà un buon matrimonio, un’ottima carriera e molti soldi, avrà dei figli meravigliosi e vivrà felicemente sposata, con un lavoro stabile e sicuro per tutto il resto della vita: nel suo futuro non sono previste malattie, morte, calamità naturali o esperienze traumatiche di alcun genere. In breve, anziché essere caratterizzata da percezioni esatte della realtà, la normale visione umana di sé e del mondo è esposta a queste distorsioni sistematiche in senso favorevole dell’immagine di sé.   
     E la cosa incredibile è che tali distorsioni della percezione normale favorisce la salute mentale anziché comprometterla. L’individuo sano di mente è sempre stato considerato dagli psicologi come una persona felice e soddisfatta, capace di curarsi e prendersi cura degli altri, impegnata in un lavoro produttivo e creativo, in grado di far fronte alle sfide poste dall’ambiente, grazie al suo potenziale di crescita personale. Mettendo in correlazione questi attributi della persona mentalmente sana con le illusioni comuni circa se stessi, il mondo e il futuro, troviamo che la salute mentale di fatto è favorita proprio da queste credenze positive e non da una visione più equilibrata e oggettiva. Per esempio, le persone felici hanno generalmente un’opinione un po’ troppo lusinghiera di sé stesse, tendono a dare degli eventi spiegazioni di comodo, sopravvalutano la propria capacità di controllare quello che succede intorno a loro e nutrono un ottimismo ingiustificato. Queste illusioni positive sembrano avere effetti vantaggiosi anche sull’interazione sociale: chi è convinto del proprio valore, si sente padrone delle situazioni e si aspetta dal futuro solo cose positive; ha verso gli altri un atteggiamento più favorevole e cordiale, una maggiore disponibilità ad aiutarli e generalmente una maggiore apertura e socievolezza.
     Anche il lavoro creativo e produttivo è facilitato da una percezione eccessivamente favorevole di sé e della propria situazione presente e futura.
Facciamo ancora un esempio. Ipotizziamo che un giorno ad una persona venga in mente di scrivere un libro su una esperienza vissuta. Se dovesse valutare in maniera del tutto oggettiva le probabilità di trovare un editore, di mettersi a lavorare con costanza fino alla fine, di riuscire a fare qualcosa di buono e di trovare un buon numero di lettori disposti a comprare il suo libro, probabilmente non lo scriverebbe mai. Di fatto la maggior parte degli autori non trova un editore, molti di quelli che lo trovano non arrivano mai a finire il libro progettato, dei libri che vedono la luce i più non sono gran cosa e anche fra quelli buoni solo pochi vendono un numero decente di copie.
Adesso ribaltiamo la situazione e immaginiamo una persona che si accinge al progetto animata dalla  visione del libro finito, scritto bene e accolto con favore dal pubblico e dalla critica, si vede già in televisione a parlare del suo successo in un programma di vasto seguito: questa visione rosea può bastare a tenerlo inchiodato alla scrivania tutte le mattine per i molti giorni necessari a finire l’opera.
     Questo è solo un esempio di come l’ottimismo irrealistico e un senso eccessivo per le proprie capacità possono essere utilissimi per indurci a perseverare in imprese dove le probabilità oggettive di successo sono molto ridotte. Non a caso tali credenze possono tradursi in profezie che si autoavverano: se quel libro viene portato a termine, può darsi che sia davvero buono e che realizzi la visione della persona inizialmente così poco realistica.
     Queste stesse illusioni possono aiutarci ad attraversare i momenti difficili. Primo, ci permettono forse con maggiore calma quando la cosa accade. Secondo, possono spingerci a prendere contromisure più pronte ed efficaci.
     Per i più scettici riporto ancora un altro esempio: dove è più evidente il potere curativo di un ottimismo irrealistico è nell’effetto placebo.
I placebo possono essere più potenti di farmaci notoriamente attivi, o addirittura ribaltarne gli effetti[4].


L’illusione dell’eudaimonìa


     Appurato il valore positivo delle illusioni e della negazione, cosa accade se ciò che neghiamo non è tanto la realtà ma sono le nostre stesse emozioni? E più precisamente, cosa accade se neghiamo a noi stessi le nostre emozioni negative e ci illudiamo di vivere una vita felice?
La risposta a questa domanda ci viene direttamente dallo studio e dall’osservazione di un gruppo di persone definite “gli imperturbabili”o “repressori”.
I repressori sono individui che abitualmente e automaticamente sembrano cancellare dalla propria consapevolezza ogni turbamento emotivo. Questo loro atto di evitamento sembra far parte di uno schema molto più generale, che li porta nella massima parte dei casi a desintonizzarsi dai turbamenti emotivi[5]. Costoro sono così bravi a tamponare i propri sentimenti negativi da non essere nemmeno consapevoli della negatività.
     Gran parte della ricerca su questi soggetti dimostra che sebbene queste persone possano sembrare calme e imperturbabili, a volte possono fremere per turbamenti psicologici dei quali sono ignare. In alcuni test in cui si chiedeva ai soggetti di completare delle frasi con valenze emotive forti, i soggetti trasformavano ad esempio un atto di aggressione in un errore innocente[6]. A questo test, veniva associato anche un monitoraggio del livello di attivazione fisiologica delle persone in esame. La loro maschera di calma imperturbabile era smentita dall’agitazione rilevabile nel loro organismo: davanti a frasi dal contenuto emotivo negativo tutti questi soggetti davano segni di ansia (aumento della frequenza cardiaca, della sudorazione e della pressione ematica e così via). Tuttavia, tutti i soggetti se interrogati dicevano di sentirsi perfettamente calmi.
     A questo punto potrebbe venire a tutti da dire che queste persone non sono altro che abili mentitori o persone che fingono e cercano solo di mascherarsi per dare un’idea sbagliata di sé.
Riescono davvero ad essere inconsapevoli delle manifestazioni fisiche delle emozioni penose, oppure si tratta solo di ostentazione?
La risposta a questa domanda deriva da un brillante e intuitivo studio effettuato nella Wisconsin University da Richard Davidson. Venne selezionato un gruppo di persone che corrispondevano ai repressori e venne fatto compiere loro un test di associazioni mentali con una lista di parole, la maggior parte delle quali era neutrale, mentre alcune avevano significati ostili o a sfondo sessuale che quasi sempre inducono ansia. Come rilevarono le loro reazioni fisiche, questi soggetti presentavano tutti i segni fisiologici del turbamento in risposta a tali parole non neutrali, sebbene mostrassero un tentativo di sterilizzarle associandole quasi sempre ad altre parole innocenti.
Lo studio di Davidson traeva vantaggio dal fatto che (nelle persone destrimani) un centro chiave nell’elaborazione delle emozioni negative si trova nella metà destra del cervello, mentre quello del linguaggio è a sinistra. Quando l’emisfero destro riconosce che una parola produce turbamento, trasmette l’informazione attraverso il corpo calloso (la grande via di comunicazione delle due metà del cervello) inviandola al centro del linguaggio, che in risposta emette una parola. Usando un complesso sistema di lenti, Davidson riuscì a proporre ai soggetti sperimentali una parola in modo che la vedessero solo in una metà del loro campo visivo. A causa delle connessioni neurali del sistema visivo, se la parola era mostrata nella metà sinistra del campo visivo, essa veniva riconosciuta dapprima dalla metà destra del cervello, cioè da quella sensibile al turbamento. Se la parola compariva solo nella metà destra del campo visivo, il segnale veniva inviato al lato sinistro del cervello senza essere prima valutato relativamente alla sua capacità di indurre turbamento.
     Quando le parole venivano presentate all’emisfero destro, c’era un tempo di latenza prima che gli imperturbabili emettessero una risposta, ma solo se la parola alla quale stavano rispondendo era di quelle non neutrali. Essi non mostravano tempo di latenza alcuno quando si misurava la velocità di associazione a parole neutrali. Il tempo di latenza compariva solo quando le parole erano presentate all’emisfero destro.
In breve, la loro imperturbabilità sembrava dovuta a un meccanismo neurale che rallentava il trasferimento dell’informazione causa di turbamento, o interferiva con esso.
Ciò implica che questi soggetti non simulano la loro mancanza di consapevolezza sul proprio grado di turbamento: è il loro stesso cervello a nascondere quell’informazione. Più precisamente, i sentimenti allegri che nascondono queste percezioni fonte di disturbo scaturiscono da elaborazioni dei lobi prefrontali. Con sua grande sorpresa, quando Davidson misurò i livelli di attività dei lobi prefrontali dei soggetti imperturbabili, essi presentavano una netta predominanza a sinistra, il centro delle emozioni positive, e molto meno a destra, il centro della negatività.
     Queste persone si presentano in una luce positiva, con uno stato d’animo ottimista. Negano di essere turbati dallo stress e, mentre sono seduti a riposo, mostrano un’attivazione frontale sinistra associata a sensazioni positive. Questa attività cerebrale è probabilmente la chiave delle loro asserzioni positive, nonostante lo stato di attivazione fisiologica in cui si trovano faccia pensare a una sofferenza.
La teoria di Davidson è che, in termini di attività cerebrale, vivere le realtà stressanti vedendole in una luce positiva è un impegno e un’illusione che richiede molte energie. L’aumentato stato di attivazione fisiologica potrebbe essere dovuto al prolungato tentativo dei circuiti neurali di mantenere i sentimenti positivi o di sopprimere o inibire tutti quelli negativi.
     In breve, l’imperturbabilità è un tipo di negazione ottimistica, una illusione, una dissociazione positiva molto simile a quella che entra in gioco in casi più gravi come ad esempio il disturbo post-traumatico da stress.
Tuttavia, nel caso di persone che mostrano semplicemente di avere uno stato d’animo sereno, essa sembra essere una strategia ben riuscita per l’autoregolaione emozionale.


La felicità arriva alla testa

     Altre persone, che si trovano lungo il continuum che va dalle emozioni negative a quelle positive, sembrano confermare questa tendenza: mi riferisco alle persone dal temperamento allegro.
Per natura le emozioni di queste persone sembrano gravitare verso il polo positivo: esse sono generalmente allegre e bonarie a differenza dei loro opposti, che manifestano un tipo di temperamento più cupe e malinconico. Questa dimensione del temperamento (l’esuberanza a un estremo e la malinconia all’altro), sembra essere legata al rapporto fra l’attività delle aree prefrontali destra e sinistra, i centri superiori del cervello emozionale. Lo stesso Davidson attraverso un brillante studio intuì che le persone con una maggiore attività del lobo frontale sinistro sono allegre per temperamento; esse solitamente traggono piacere dal contatto umano e da ciò che la vita offre loro.
Gli individui con un’attività maggiore a livello del lobo frontale destro, invece, sono propensi alla negatività e all’umor nero, e vengono facilmente turbati dalle difficoltà della vita.
     Anche il modo di percepire il mondo cambia nettamente tra i due tipi: mentre i malinconici vedono catastrofi anche nelle inezie, sono soggetti a paure e a instabilità dell’umore e sono sospettosi di un mondo che ritengono essere pieno di difficoltà schiaccianti e pericoli in agguato, le loro controparti mostrano di essere invece più socievoli e allegri, hanno una grande fiducia in se stessi e si sentono coinvolti nella vita in maniera più gratificante.
     Essi, inoltre, sembrano suggerire avere un minor rischio di depressione e altri disturbi emozionali. Devidson, infatti, scoprì che rispetto a chi non era mai stato depresso, gli individui con una storia di depressione clinica presentavano un livello di attività rispettivamente inferiore nel lobo frontale sinistro, e superiore a destra. Egli scoprì che la stessa situazione in pazienti ai quali era stata diagnosticata la depressione: a questo punto ipotizzò addirittura che gli individui che superano la depressione abbiano imparato ad aumentare il livello di attività nel lobo prefrontale sinistro, un’ipotesi che è in attesa di conferma sperimentale.


Stare bene fa bene

     Tutte queste implicazioni che abbiamo osservato sono comunque il risultato di un funzionamento sinaptico/cerebrale che influenza il nostro modo di comportarci. Tuttavia è anche vero il contrario, e cioè che le emozioni positive possono favorire dei processi cognitivi, migliorare le prestazioni sinaptiche o avere dei veri e propri miglioramenti di tipo terapeutico.
     Uno degli effetti più studiati e documentati delle emozioni positive è il loro potere sulla memoria. Se si è allegri durante la fase di presentazione o di studio del materiale da ricordare si ha un effetto positivo sulla capacità di apprendimento e sui meccanismi linguistico-cognitivi di base, al di fuori dal controllo consapevole come il riconoscimento di parole presentate al tachistoscopio (strumento che consente la visione di stimoli in tempi brevissimi). Questo è dovuto ad una maggiore attivazione generale che accompagna questi stati d’animo.
In linea con quanto finora affermato, possiamo dire con una certa sicurezza che le emozioni positive tendono a farci vedere il mondo attraverso delle lenti rosate. Questo perché queste emozioni tendono a farci sopravvalutare e a sopravvalutare il nostro comportamento; esse inoltre tendono a indurci a valutare come dei successi i nostri comportamenti passati (effetto questo che può essere mediato anche da un ricordo selettivo per gli eventi positivi). Così come gli oggetti sembrano più belli e desiderabili e le azioni più facili, quando si è euforici anche gli altri sembrano migliori sotto tutti gli aspetti, dai più marginali e transitori a quelli fondamentali e stabili.
Anche le forme di pensiero quali i processi di categorizzazione, le capacità di previsione, le decisioni e l’assunzione di rischi, la velocità ed efficacia nel problem solving (risolvere vari tipi di problemi di tipo astratto e logico, o quelli che richiedono creatività e flessibilità) e infine nel condurre con efficacia un negoziato o una interazione finalizzata sono tutte capacità influenzate in meglio dalle emozioni positive.
A migliorare in noi stessi è anche l’ottimismo, la capacità di valutare gli eventi futuri e quella di prendere decisioni più in fretta; ci si sente pieni di energia e si migliora anche il comportamento altruistico; si allargano i propri interessi sociali e artistici e così via.
     Un fatto curioso da segnalare riguarda, da parte di chi è felice, il disinteressarsi delle informazioni negative che li riguardano. E poiché gli atteggiamenti e le attese positive generano spesso dei comportamenti positivi, ecco spiegato il circolo virtuoso della gioia e dell’ottimismo, che trova giustificazioni a posteriori nella realtà. In certi casi tipici non è altro che un’illusione, ma che viene realizzata con il concorso inconsapevole di tutti.


La magia del gelos


Una risata può avere lo stesso effetto di un antidolorifico:
 entrambi agiscono sul sistema nervoso anestetizzandolo
 e convincendo il paziente che il dolore non ci sia.
 Patch Adams


     Un ultimo appunto doveroso deve essere fatto alla gelotologia, parola derivante dal greco gelos, ovvero riso. È la disciplina che studia il fenomeno del ridere, con particolare riguardo alle potenzialità terapeutiche di esso. La Gelotologia studia ed applica la risata e le emozioni positive in funzione di prevenzione, riabilitazione e formazione. Essa concorre al processo di cura del paziente non visto più solo ed unicamente in funzione della sua malattia ma invece come centro di un approccio globale, che va dalla terapia farmacologia tradizionale al supporto emotivo.           

Norman Cousins

     La gelotologia[7], il cui precursore può essere considerato il dott. Norman Cousins[8] si è applicata in molte parti del mondo in svariati campi: nel settore sanitario, in particolare con i bambini, ma anche con altre tipologie di pazienti. L’operatore professionale della gelotologia è il Clown Dottore[9].
Il Clown dottore più famoso del mondo è il dottor Hunter “Patch” Adams. Egli iniziò a formulare una teoria sulla felicità partendo dall’esperienza negativa che l’ha visto protagonista quando era ancora un adolescente: fu ricoverato in una clinica a causa di una forte depressione che lo stava conducendo lentamente al suicidio.
Dopo essersi iscritto alla Facoltà di Medicina, intraprende degli studi su un campione di pazienti ricoverati in ospedale. Da sempre convinto che risata e sorriso portassero enormi benefici, Adams iniziò a visitare i suoi pazienti travestito da clown. Passo dopo passo il suo sogno prendeva forma: realizzare una casa-ospedale dove curare i pazienti con terapie alternative a quelle tradizionali, basate sulla ricerca del benessere.

Patch Adams

Nel 1983 Adams, con la collaborazione di alcuni amici, riuscì finalmente a realizzare il Gensundheit Institute - Istituto della Salute nelle montagne del West Virginia: in questa struttura il rapporto tra pazienti e dottori si basava sulla fiducia reciproca e buon umore, mentre gioia e creatività divennero prescrizioni essenziali delle sue cure.
     La gelotologia trova le sue radici in una branca della medicina che si basa sull’assunto che c’è una diretta correlazione tra le emozioni ed il sistema immunitario. Esistono infatti importanti correlazioni tra sistema nervoso, sistema endocrino e sistema immunitario.
Ridere può essere molto rischioso per i malanni.
Ridere attiva tutte le parti del corpo umano: il cuore e la respirazione accelerano i loro ritmi, la pressione arteriosa diminuisce e i muscoli si rilassano. Anche la chimica del sangue si modifica, in quanto, tanto più la risata è esplosiva e spontanea, tanto più diminuisce la tensione e si manifesta una sensazione di liberazione che coinvolge tutti gli organi e le funzioni corporee. Tutto questo perché ridere stimola la produzione di beta-endorfine da parte delle ghiandole surrenali che producono cortisolo, un ormone che regola la risposta allo stress. La loro peculiarità sta nella capacità di regolare l’umore. Esse vengono rilasciate in situazioni stressanti come forma di difesa, in modo da poter sopportare meglio il dolore, fisico o psicologico. È ormai provato che il buon umore e la fiducia rafforzano l’organismo aumentando le difese immunitarie, mentre stati depressivi favoriscono l’insorgere di malattie.

Conclusioni

     La felicità, la gioia e le emozioni positive, sappiamo in maniera intuitiva che ci fanno bene: è il nostro stesso buon senso a dircelo al di là delle ricerche scientifiche. Solamente non dimenticandocene, ma anzi valorizzando queste emozioni possiamo davvero migliorare la qualità della nostra vita.
E anche in terapia dovremmo ricordarlo più spesso.
D’altronde, come diceva Jung: “Nella lotta per l’esistenza e per l’adattamento alla vita ognuno adopera istintivamente la sua funzione più sviluppata, che perciò diventa il criterio delle sue reazioni abituali.
Essa può diventare anche la sua arma più preziosa, la sua risorsa per affrontare in modo degno e soddisfacente la realtà che lo circonda”.

Bibliografia

Daniel Goleman (2009)  Intelligenza emotiva. Che cos’è. Perché può renderci felici, BUR Rizzoli. Milano.
D’urso e Trentin (1998) Introduzione alla psicologia delle emozioni, Università Laterza Psicologia. Roma.
Joseph LeDoux (2004) Il cervello emotivo, Baldini Castoldi Dalai Editore. Milano.
Carl Gustav Jung (1959) Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Giulio Einaudi Editore. Milano.
La positività della negazione: quando conviene non affrontare la realtà. In: Psicologia contemporanea n° 42, Nov./Dic. 1980 Giunti Editore. Firenze.
Autoinganno: quando e perché diventa la strategia più giusta. In: Psicologia contemporanea n° 108, Nov./Dic. 1981 Giunti Editore. Firenze.

Web grafia



DVD grafia

Piero Angela (2009). Viaggio nelle scienze n° 27: Ridere. Rai Trade.





[1] Eudaimonìa è un termine che viene tradotto comunemente come felicità.
[2] Per citare qualche esempio, possiamo prendere in considerazione il libro di O’Neill dal titolo “The Iceman Cometh”. In questa commedia vi è un bar frequentato da un certo numero di derelitti pieni di autoillusioni. Un giorno arriva un amico occasionale che li consiglia ardentemente di smetterla di credere a tutte quelle frottole su se stessi e di guardare in faccia la realtà. Ottiene successo con uno di loro, che in seguito si suicida. Alla fine tutti gli altri rinunciano e tornano alle loro illusioni. O’Neill ci suggerisce quindi che la vita non può essere vissuta senza illusioni.
Anche lo scrittore Ibsen, nel suo romanzo “L’anatra selvatica”, cerca di comunicarci l’importanza delle illusioni necessarie.
[3] Walter Mischel, un ricercatore dell’università di Stanford, scoprì attraverso le sue ricerche un particolare curioso che sostiene questa tesi: in uno studio sulla depressione, verificò che le persone depresse sono più realistiche nelle loro autopercezioni delle persone non depresse. Mentre il gruppo dei depressi, infatti valutava le proprie capacità con più accuratezza, conformemente ad una valutazione oggettiva, gli altri le valutavano in modo più positivo di quanto effettivamente non fossero. I ricercatori chiamarono questo fenomeno “splendore illusorio” e ritennero essere un elemento utile per la salute mentale.
[4] Famoso è il caso di Mr. Wright, malato di un cancro in operabile in fase quasi terminale, il quale credeva di essere trattato con Krobiozen, un “farmaco miracoloso”. In realtà il suo medico curante sapeva che il Krebiozen non aveva alcuna efficacia e gli somministrava regolarmente iniezioni di acqua distillata. Eppure il tumore si riduceva a vista d’occhio. Poi un giorno Mr. Wright leggendo un giornale si imbatté in un articolo che riferiva della dimostrata inutilità del Krebiozen. Il tumore ricomparve e il paziente morì poco tempo dopo.
[5] Inizialmente i ricercatori considerarono i repressori come un esempio dell’incapacità di sentir emozioni, e per questo motivo li inglobarono nella categoria degli alessitimici. Successivamente si resero conto che essi sono in realtà dei veri e propri esperti nella regolazione delle emozioni.
[6] Un esempio tipico di questo tipo di test può essere il seguente: “Diede un calcio nello stomaco al suo compagno di camera…”. La frase comincia così e un esempio di repressione potrebbe essere il suo continuo “ma voleva solo accendere la luce”.
[7] Nel 1650 circa Angelo Paoli, sacerdote italiano beatificato nel 2010, intraprendeva molteplici attività caritative: si travestiva da buffone e si truccava per far sorridere i malati.
Invece a Torino, nei primi del ‘900, era nata un’associazione denominata il “Circolo del Buon umore”, composta da persone che cercavano di star bene insieme, di ridere, e la loro regola era che bisognava proprio cercare di vedere la vita con ottimismo e senso dell’umorismo. Ma la cosa più interessante era che tra le attività dei soci c’era quella di andare negli ospedali ad assistere malati e raccontare loro delle barzellette per distrarli per un po’ dai loro momenti di dolore e aiutarli a sorridere.
Più di un secolo fa, Angelo Paoli e il “Circolo del Buon umore” avevano anticipato la gelotologia.  
[8] Il giornalista scientifico Norman Cousins era affetto da spondite anchilosante. Decise di provare a curarsi ridendo, nutrendosi per tre o quattro ore al giorno di film comici, e assumendo quotidianamente per flebo 25 grammi di vitamina C. Contro ogni previsione, Cousins nell’ arco di un anno guarì. Un recente studio canadese, ha scientificamente confermato che il buon umore difende dalle infezioni, determinando una minor riduzione dell’immunoglobulina A.
[9] Il ruolo del Clown Dottore può essere svolto da un operatore socio-sanitario professionale che applica le conoscenze della Gelotologia e della Psiconeuroendocrinoimmunologia nei contesti di disagio, ma anche più semplicemente da volontari o da membri del personale medico.
Egli lavora in coppia con un altro Clown Dottore, sfruttando le arti del Clown (Umorismo, Improvvisazione teatrale, Prestidigitazione, Marionette, Musica etc.) per cambiare il segno delle emozioni negative delle persone che vivono un disagio sanitario e/o sociale. Essi, a seconda del contesto, possono effettuare comicoterapia passiva (far ridere) o attiva (essere stimolatore di produzione comico/umoristica da parte dei suoi interlcutori).
Il clown trasforma il reparto o la camera d’ospedale , cornici fredde e distaccate dove vivono i pazienti, in un ambiente magico in cui la risata si fa strumento di gioia e sicurezza, incoraggiando al dialogo, forma essenziale di interazione e legami. Inoltre prova a stabilire con gli spettatori un rapporto umano di fiducia e confidenza, capace di far dimenticar la quotidianità della vita ospedaliera, a profitto della fantasia e dell’immaginazione. L’importanza di questa figura non si esaurisce nella figura del paziente, bensì si estende a tutta la sua famiglia, proprio perché i miglioramenti del malato vengono vissuti e condivisi anche da coloro che lo circondano con amore e affetto.