Il filosofo greco Anassagora
(500-426 a.C) immaginò un principio, chiamato mente, in grado di fornire alla
materia il suo peculiare ordine. Secondo la sua visione, infatti, tutta la
realtà è dualistica, costituita da mente e materia.
René Descartes, il filosofo e matematico francese del diciassettesimo secolo
che affermò, “Penso, dunque sono” (in latino “Cogito, ergo sum”), fece di più:
tracciò una netta distinzione tra mente e corpo. Per Descartes, la mente era
una sostanza immateriale responsabile del pensiero razionale,
dell’immaginazione, del sentimento e della volontà. Il corpo era legato alla
sfera materiale. Tutta la materia era completamente soggetta alle leggi della
fisica, tranne il corpo che era influenzato anche dalla mente umana, o volontà,
anche se è un’entità distinta. Il dualismo mente-corpo di Descartes costituì
per il pensiero occidentale il lavoro di preparazione alla separazione tra
teologia e scienza, materialismo e spiritualismo, corpo e mente. Egli sostenne
la distinzione, nell’ambito della scienza, tra fenomeni fisici o malattie e
quelle di natura mentale o emotiva. Sfortunatamente, questa concezione ha
segnato il pensiero occidentale nei secoli a venire portandoci a concentrare le
nostre attenzioni sulla parte per noi più nobile, ovvero la nostra mente,
scindendola e separandola dal mezzo che la nostra mente ha per interfacciarsi
con il mondo esterno, ovvero il nostro corpo. La maggior parte delle persone
sembra essere in grado di riferire su idee e pensieri ma fatica a riconoscere e
descrivere sensazioni, dà alle prime una dignità e un ruolo che non riesce ad
attribuire alle seconde, concepisce il corpo come qualcosa che possiede, ma non
come parte integrante del sé. La nostra cultura continua a ribadirci che il sé
non è corporeo ma mentale e che l’“Io” non si riferisce all’esperienza
corporea. Anche nel nostro vivere quotidiano, continuamente diciamo il “mio
corpo” e ciò che è mio, per definizione, è un oggetto al di fuori di me. Il
corpo diventa un non-sé perché l’identificazione avviene con gli aspetti
ritenuti superiori: la mente, la psiche, la personalità.
Sia la cultura sia i nostri
processi di pensiero ci inducono verso un processo di desensibilizzazione che
ci allontana sempre di più dalle nostre sensazioni
corporee: tuttavia la nostra esperienza
ha inizio proprio con le sensazioni
interne ed esterne (percezioni) che rappresentano il fondo di energia e di
informazioni grazie al quale viviamo nel mondo. Queste capacità sensoriali
possono essere divise in due categorie per quanto riguarda il nostro contatto
con la realtà. Esistono quelle orientate verso l’interno del sé: la
propriocezione (il senso della posizione delle parti del corpo), la cinestesia
(il senso del movimento), le sensazioni viscerali (il senso di pienezza o di
vuoto degli organi digestivi, la fame, il battito cardiaco), e i vari recettori
di pressione, dolore, piacere; così come le “sensazioni” dei pensieri e delle
immagini visive. Questi sensi ci indicano lo stato attuale del nostro
organismo, dei nostri sentimenti, desideri e bisogni e ci radicano alla realtà
personale.
Ci sono anche altre capacità
sensoriali orientate verso la nostra relazione con l’ambiente: la vista,
l’udito, il gusto, il tatto e l’olfatto. È attraverso questi sensi che siamo
legati alla realtà dell’ambiente e determiniamo la nostra relazione con esso.
Senza una chiara sensazione dall’esterno, perdiamo il contatto con ciò che è a
nostra disposizione, ciò con cui dobbiamo lottare e a cui dobbiamo adattarci,
perdiamo contatto con il modo in cui dobbiamo direzionarci per fare
un’esperienza piena.
In mancanza di sensazioni chiare
ed accessibili, perdiamo il contatto con i bisogni, con il nostro stato
organismico presente, la nostra relazione con l’ambiente. Senza una chiara
percezione sensoriale di noi stessi e una chiara percezione sensoriale
dell’ambiente, perdiamo il nostro fondamento nel mondo. Nonostante l’importanza
delle sensazioni provenienti dal nostro corpo, tutti noi possediamo almeno
qualche area della vita sensoriale che abbiamo desensibilizzato, cioè rendiamo noi stessi meno sensibili agli
stimoli e all’esperienza. Alcune persone infatti sperimentano la difficoltà a
sentirsi tristi in occasioni in cui la tristezza è appropriata; altre persone
fanno esperienza con una generale e cronica mancanza di vitalità o con una
incapacità ad apprezzare la vita e così via. Più i nostri sentimenti per la
vita e la connessione con l’ambiente diventano inaccessibili, più buona parte
del nostro senso del sé, della nostra esperienza del vivere, diventa inaccessibile.
Il risultato è che arriviamo a sperimentare la vita con la sensazione di avere
a che fare con le “solite cose”. Esistono scarsi momenti salienti e di
contrasto, eccetto quando forziamo la nostra esperienza attraverso l’edonismo,
le droghe, l’alcol, oppure la ricerca del pericolo, del rischio e delle crisi
per dare uno scossone alla nostra carne intorpidita e indurla alla vita. Coloro
che rifuggono i propri sentimenti attraverso l’intellettualizzazione e la vita
incorporea di puro pensiero sono simili nella natura, sebbene non nella
tipologia, a coloro che devono flagellare il proprio corpo vivo usando un duro
e maniacale esercizio fisico; c’è ancora chi sostituisce i bisogni corporei con
bisogni fittizi e artificiali come ad esempio un bisogno estetico piuttosto che
una concentrazione sul senso di sé.
I problemi di anomia (mancanza di
identità), distacco, mancanza di coinvolgimento e di connessione, che sembrano
così prevalenti nelle nostre società, derivano, in parte, non da una crisi
filosofica, ma dalla desensibilizzazione della nostra base sensoriale. Ma come
avviene questo processo di desensibilizzazione? Quando le sensazioni ci
disturbano e non è possibile evitarle agendo sulla fonte ambientale di disturbo
o fuggendola, un modo di fronteggiarle è quello di alterare la percezione della
sensazione. Gli esseri umani sono capaci di attenuare l’impatto delle
sensazioni o riducendo la propria qualità di attenzione o indebolendo la
capacità di percezione dei propri organi: questo processo è chiamato desensibilizzazione. La
desensibilizzazione diminuisce l’esperienza del disagio, ma esige un prezzo da
pagare in quanto riduce la capacità di sentirsi vitali e un pieno senso di sé.
Ma quand’è che le nostre
sensazioni risultano spiacevoli? Le sensazioni possono essere fonte di disagio
per tre motivi fondamentali. Uno è che esse sono intrinsecamente spiacevoli,
come il dolore fisico, la fame, il freddo. Un secondo motivo è che le
sensazioni che segnalano bisogni organismici procurano disagio quando non
possono essere soddisfatte: il bisogno di contatto umano quando non viene
soddisfatto diventa solitudine penosa; il bisogno di movimento diventa tensione
dolorosa se non soddisfatto. Una terza ragione è che le sensazioni possono
essere in conflitto con convinzioni fortemente radicate: le sensazioni e i
sentimenti sessuali vengono vissuti come intollerabili se sono ritenuti
“sporchi”; i sentimenti di rabbia sono qualcosa che “non si esprime in questa
famiglia” e diventano così inaccettabili quando vengono esperiti.
La desensibilizzazione intacca
quindi la nostra abilità di prestare attenzione alle sensazioni e in
particolare ci desensibilizziamo dall’esperienza attraverso:
L’attenzione selettiva. Evitiamo di prestare attenzione
all’esperienza del corpo distraendoci, oppure spostando la nostra attenzione
prima che una sensazione interiore sia diventata chiara a livello di
consapevolezza.
L’interferenza con la respirazione. Allo scopo di conservare
abbastanza vitalità per avere sensazioni adeguate, dobbiamo sostenere la nostra
vitalità con il respiro. Una respirazione superficiale o minima indebolisce il
nostro sentire.
La contrazione muscolare cronica. Questa “spinge fuori” la sensazione
corporea, rendendo il tessuto insensibile, e impedisce i movimenti ravvivanti.
La tensione muscolare cronica alla fine diventa statica e strutturale. Viene
istituzionalizzata nei muscoli e nella postura.
Fortunatamente nell’ultimo secolo
l’analisi bio-psico-sociale apportata dalle scienze umane ha iniziato una
integrazione tra processi fisici e mentali, ridando la giusta importanza al
concetto stesso di unità psico-fisica. Negli ultimi anni, in psicoterapia
sembra addirittura aumentata l’attenzione nei riguardi dei fenomeni del corpo.
Due influssi hanno contribuito maggiormente ad ampliare la visione dell’uomo
includendo i processi corporei: uno è stato l’interesse per le arti e per le
terapie corporee nella psicologia umanistica e nei movimenti per il potenziale
umano, compreso un rinascere delle terapie ad orientamento reichiano, l’enfasi
sul corpo nella psicoterapia della Gestalt, e le arti corporee come lo Hatha
yoga, le arti marziali, le tecniche di Feldenkrais e di Alexander, ed il
Rolfing (integrazione strutturale). Un secondo influsso è stato esercitato
dalla comprensione del comportamento non verbale come forma di comunicazione.
Questa influenza è stata utilizzata da psicoterapie quali l’ipnosi Eriksoniana
e dalle scuole di terapia interessate alle comunicazioni moderne (ad esempio la
comunicazione in coppia).
All’interno di questa recente
ondata di interessi per i fenomeni corporei esistono tuttavia differenze
significative nei modi attraverso cui il processo corporeo viene inteso nel
contesto della psicoterapia. Queste differenze si riflettono in quattro punti
di vista:
Terapie, come la psicoanalisi e il
cognitivismo, che presentano poca attenzione ai fenomeni corporei se non come
sintomi di problemi mentali “sottostanti” (cioè, come epifenomeni della
mente/cognizione);
Arti corporee, come quelle sopra
citate, che lavorano solo con i processi fisici, tanto quanto la psicoanalisi
lavora solo con i processi mentali;
Le scuole di terapia centrate
sulla comunicazione e quelle comportamentali, che vedono i fenomeni corporei
come una serie di segnali da controllare o come comportamenti da modificare;
Le terapie corporee che mirano ad
un intervento in profondità, come la scuola della Gestalt e quella reichiana,
che vedono il corpo come intrinseco al sé e hanno una concezione olistica della
persona.
Al di là dei differenti punti di
vista teorici, per la nostra personale opinione della psicoterapia riteniamo
importantissimo l’impiego del metodo
esperienziale ai fini di una efficace processo di guarigione. L’interazione
e il lavoro con il paziente solo a livello verbale presentano forti
limitazioni. L’avvenuta comprensione di un
problema costituisce, infatti, un buon passo avanti, ma non è identica
alla sua risoluzione. L’impiego di tecniche basate sull’esperienza diretta e
coinvolgenti direttamente il corpo, quali bioenergetica, gestalt, massaggio,
psicodramma, biodanza, rebirthing potenziano enormemente la capacità
trasformatrice dell’intervento terapeutico. Esse hanno, per di più, il
vantaggio di affidarsi a meccanismi di autoregolazione innati del sistema
psicofisico dell’uomo, limitando gli errori di valutazione in sede diagnostica
e strategica.
Per questo motivo dopo un breve
excursus tra le diverse teorie e approcci che integrano il corpo nei loro modelli,
tratteremo della visione di Reich e Lowen, confrontandola con la psicoterapia
della Gestalt fino ad arrivare a disquisire delle moderne e attuali discipline che utilizzano
il corpo come strumento di cura di pari dignità rispetto alla mente e lo integrano
con delle tecniche di tipo esperienziale. In particolare volgeremo uno sguardo
più attento a tecniche come quella di Feldenkrais o alle più recenti tecniche
di Biodanza e proveremo ad ipotizzare la possibilità di un loro utilizzo
all’interno della psicoterapia ad orientamento gestaltico.
La separazione del corpo dal sé e,
per estensione, la separazione di corpo e mente, è un adattamento agli eventi
dolorosi della vita di cui si fa esperienza fisicamente. La persona rimane una
totalità, ma arriva a fare esperienza del sé come se fosse diviso in parti. In
questa frammentazione di se stessi, l’“Io” di solito viene identificato con il
funzionamento mentale (la produzione di pensieri, immagini, parole ecc.) e
quegli aspetti della propria esperienza corporea che sono stati vissuti come
problematici e dolorosi vengono sperimentati come “esterni” a se stessi.
Il metodo terapeutico dovrebbe
mirare ad integrare l’esperienza del paziente in una totalità attraverso il
recupero e la riappropriazione degli aspetti rinnegati del sé, in particolare
gli aspetti corporei del sé. Tuttavia risulta molto difficile, all’interno del
nostro contemporaneo contesto culturale, riuscire a scardinare la concezione
diffusa di considerare corpo e mente come entità distinte.
Tra le principali teorie a cui
possiamo attingere affinché vengano esplorate e integrate tutte le possibili
connessioni tra mente e corpo, le principali e più accreditate sono le
seguenti:
1. La
visione Monistica.
Nella visione monistica la mente
non è nient’altro che il prodotto della chimica elettrofisica del cervello; ciò
vuol dire che una persona equivale al funzionamento dei suoi organi, e i
problemi possono essere individuati e trattati curando i particolari organi
compromessi.
2. L’approccio
Unidirezionale.
Nella visione dualistica le sfere
di mente e corpo sono completamente separate tra loro, e ognuna di esse
richiede un trattamento a sé; la terapia verbale per i problemi mentali e la
terapia fisica per la sofferenza corporea. In alcuni approcci dualistici si
ammette che queste due sfere separate possano avere effetto l’una sull’altra,
ma si ritiene che l’approccio più desiderabile sia quello di un corretto
trattamento della sfera in cui ha sede il “problema reale”.
A questa visione appartengono
numerose terapie corporee, come l’integrazione strutturale (Rolf), la tecnica
di Alexander e la tecnica di Feldenkrais. Questi ed altri approcci somatici
riconoscono il contributo dei processi psicologici nella formazione della
tensione corporea e degli squilibri posturali. Tuttavia non esiste alcuna
metodologia strutturata al fine di lavorare con i processi psicologici e per
connetterli esplicitamente al lavoro somatico. Alcuni di questi approcci si
spingono fino a supporre una interdipendenza, sebbene non un vero e proprio
olismo, di mente e corpo. Questa assunzione nasce dal ritenere che vi sia una
mutua connessione tra struttura e funzione. Per esempio dal punto di vista psicologico,
se si modifica il processo psicologico (il conflitto o la difesa), si modifica
la struttura somatica che è in relazione con esso. Dal punto di vista somatico,
se si modifica la struttura (il corpo), si modifica la funzione (psicologica)
che è in relazione con essa. Questa premessa della correlazione
struttura/funzione è abbastanza esplicita in molte terapie somatiche, ed è
implicita nel modo in cui la maggior parte degli approcci unidirezionali alla
psicoterapia intendono affrontare i disturbi somatici. Questi approcci,
tuttavia, non possiedono alcun modo per colmare la lacuna esperienziale tra le
parti, né per trattare la relazione struttura/funzione come una totalità al
fine di evitare l’isolamento delle parti. Non è raro per gli individui che sono
passati attraverso varie esperienze di terapia corporea l’aver riportato un
cambiamento corrispondente nella loro vita emotiva quasi nullo. Frequentemente
essi sono incapaci di mantenere i cambiamenti della loro organizzazione
posturale e muscolare poiché non hanno esaminato come questi aspetti fisici si
situano nelle loro vite emotive. Analogamente, vi sono persone che si sono
sottoposte a una lunga psicoterapia e i cui atteggiamenti corporei abituali
impediscono ancora a ciò che hanno compreso di se stesse di potersi incarnare
nel loro comportamento e nel loro modo di interagire.
3. L’approccio
terapeutico metodo alternato.
Nel modello del parallelismo le
sfere del corpo e della mente sono considerate separate eppure strettamente
collegate, così che l’una inevitabilmente ha effetti sull’altra. A seconda del
grado di connessione che si percepisce tra le parti, i problemi di una sfera
saranno una funzione della disfunzione che esiste nell’altra, ed i cambiamenti
che avvengono in un’area avranno un impatto sull’altra. Un modo per combinare
il lavoro fisico e quello mentale è alternare i due tipi di intervento. Questo
punto di vista è spesso caratterizzato dalla parola “e”, come in “bioenergetica
e psicoterapia della Gestalt”; tecnica di Feldenkrais e Psicoterapia… Il
terapeuta lavora alternativamente con la terapia verbale e con un approccio ad
orientamento corporeo in un tentativo di rivolgersi sia agli elementi mentali
che a quelli fisici dell’esperienza e del funzionamento del paziente. In questo
tipo di approccio non c’è una convergenza di metodi: vengono utilizzati in
momenti differenti e non si realizza alcun tentativo di lavorare
simultaneamente con il processo corporeo e con il processo psicologico come
unità. Il problema con questo tipo di approccio è che, poiché permane una netta
separazione tra il lavoro somatico e il lavoro psicologico, può essere
rinforzato il senso di una scissione.
4. Gli
Approcci Stratificati.
Gli approcci stratificati
prevedono l’uso concomitante di un approccio corporeo, per esempio la tecnica
di Feldenkrais e di un metodo psicoterapeutico. Non è ben delineato nella
letteratura ma è utilizzato da alcuni terapeuti che hanno fatto determinati e
specifici percorsi. La stratificazione a prima vista sembra essere un approccio
olistico, come un duetto in cui il terapeuta lavora simultaneamente sulla
struttura corporea e sulle tensioni muscolari del cliente per favorirne il
rilascio, ma nonostante ciò si continua ad intervenire sulla persona come se
fosse strutturata in componenti separate anche perché il metodo fisico ed il
metodo psicologico derivano da fonti teoriche e filosofiche diverse.
Stratificare due approcci incompatibili implica infatti due possibilità: la
prima è che il terapeuta deve ignorare le loro differenze ed esporre il paziente
ad un contrasto esperienziale, ad esempio la differenza tra il modo di
considerare la resistenza nell’approccio reichiano, che tenta di demolirla, e
quello della psicoterapia della Gestalt, che tiene presente il valore della
resistenza; la seconda è che il terapeuta deve alterare fondamentalmente uno
dei due approcci stratificati così che esso non risulti più fedele alle sue
origini.
5.
Il Metodo Olistico.
L’approccio integrato afferma che vedere una persona
come una totalità più grande della somma delle sue parti significa vedere la
persona come composta da tutte le parti: corpo, mente, pensieri, sentimenti,
immaginario, movimento e così via; ma non come una qualsiasi di queste sue
parti. È il funzionamento integrato nel tempo e nello spazio dei vari aspetti
del tutto ad essere la persona. Questo tipo di approccio prova a considerare
ogni processo (un conflitto, un tema esistenziale, un sintomo fisico) parte di
un insieme più vasto, che include gli aspetti somatici e psicologici. Ogni
problema psicologico (ad esempio, un conflitto tra parti del sé, un trauma
emotivo, un’interazione incompiuta) è parte di una Gestalt più ampia che
include l’espressione tipica di quel problema (ad esempio, uno schema di
tensione, un certo modo di atteggiare il corpo, inibizioni della respirazione).
Ogni sintomo somatico, quale una tensione cronica o una distorsione posturale,
è una espressione di una totalità più ampia, che include un problema
psicologico, ed è parte dell’espressione di quest’ultimo. In termini di metodo
un approccio integrato mira a mettere insieme tutti gli aspetti della persona
così che questa possa fare esperienza di sé come di un organismo unitario di
cui si fa esperienza nel momento presente, invece di un miscuglio di parti.
Tuttavia, anche un approccio di questo tipo deve iniziare dalla condizione
esistente di un sé che viene vissuto come composto di parti e lavorare per
sviluppare consapevolezza delle parti, su come esse siano tenute separate
dall’insieme e per integrare l’esperienza della persona in un senso del sé
unitario. Per raggiungere questo fine, innanzitutto c’è bisogno che il paziente
capisca il senso di questa integrazione e ne condivida il valore attraverso un sufficiente grado di consapevolezza
del corpo, della relazione fra se stessi e le questioni e i problemi della vita
corrente e una fiducia di base nella connessione tra processo corporeo e
problemi psicologici.
Ma vediamo ora in maniera più approfondita ciò che abbiamo
illustrato finora.
Il pioniere delle terapie corporee fu Reich, un
allievo di Freud che era particolarmente interessato a due temi essenziali:
1. alla comprensione della natura della libido
(energia sessuale) e alla ricerca della fonte di energia della nevrosi, del suo
nucleo somatico.
2. allo sviluppo dei modi per comprendere e
trattare la resistenza dei pazienti al processo terapeutico.
In particolare, per quanto riguarda il secondo
punto, Reich notò che ognuno dei suoi pazienti aveva uno stile caratteristico,
un modo di agire, e si focalizzò sul modo in cui questo stile sembrava servire
come difesa in terapia, come modalità per proteggersi dalle interpretazioni
dell’analista e quindi per ostacolare il cambiamento. Denominò tale stile
“carattere” o “resistenza di carattere”. Il suo pensiero cruciale fu che la
resistenza di carattere non riguardava solo la sfera cognitiva, ma che avesse a
che fare con il modo dei pazienti di muoversi, di sedersi, di modulare la voce,
di mantenere una postura, di tendere i muscoli, pertanto con tutto quanto
concerne l’espressività corporea.
Il suo intervento terapeutico era basato quindi
sull’attenzione e su un lavoro sul corpo, che per la prima volta con lui,
diventava elemento essenziale del lavoro terapeutico.
Reich considerava come causa delle nevrosi
l’energia sessuale bloccata: l’individuo nevrotico mantiene un certo equilibrio
vincolando la propria energia mediante
le tensioni muscolari e limitando il proprio eccitamento sessuale.
Un individuo sano non ha limitazioni e la sua
energia non è vincolata in un’armatura muscolare. Egli parla infatti di
“corazza caratteriale” per indicare tensioni muscolari croniche che incapsulano
l’energia libidica, che Reich chiama “energia orgonica”.
Reich chiamava la sua terapia “Vegetoterapia
analitica del carattere” e consisteva nella mobilitazione delle sensazioni
attraverso la respirazione ed altre tecniche corporee che attivavano i centri
vegetativi (i gangli del sistema nervoso autonomo) e liberavano energie
“vegetative”. Questo tipo di lavoro terapeutico rappresentava una rottura,
dall’analisi puramente verbale al lavoro diretto sul corpo.
L’obiettivo della terapia
era che il paziente sviluppasse la capacità di abbandonarsi completamente ai
movimenti spontanei ed involontari del corpo. Per far sì che si generasse tale
processo era indispensabile lavorare sul respiro del paziente, lasciare che la
respirazione avvenisse piena e profonda. Facendo ciò, le onde respiratorie
producevano un movimento ondulatorio del corpo, che Reich chiamava riflesso orgasmico.
Secondo Reich la nevrosi, non
solo bloccava la capacità di abbandonarsi del paziente, ma vincolando l’energia
in tensioni muscolari croniche, impediva che fosse disponibile per la carica
sessuale. Egli credeva che l’orgasmo completo scaricava tutta l’energia in
eccesso dell’organismo: di conseguenza non c’era più energia per mantenere il
sintomo o il comportamento nevrotico.
Per Reich l’orgasmo era una
risposta involontaria della totalità del corpo che si manifesta in movimenti
ritmici e convulsi. Lo stesso tipo di movimento può verificarsi anche quando la
respirazione è completamente libera e ci si abbandona al proprio corpo. In
questo caso non c’è scarica dell’eccitamento sessuale perché l’eccitamento non
c’è stato, succede questo: ad ogni espirazione la pelvi si muove spontaneamente
in avanti, ad ogni inspirazione si muove indietro. Questi movimenti sono
prodotti dall’onda respiratoria: un paziente, il cui corpo sia abbastanza
libero da avere questo riflesso durante la seduta terapeutica, dovrebbe anche
essere in grado di provare l’orgasmo completo nell’atto sessuale, perché
emotivamente sano.
Reich sviluppò una grande
abilità nel leggere il corpo: sapeva come applicare una pressione tale da scaricare
le tensioni muscolari, facendo nascere nel corpo il flusso di sensazioni che
chiamava “streamings”(sensazioni di
corrente).
Come si evince, il metodo
reichiano era basato sul contatto fisico col paziente, cosa che a quei tempi
generò polemiche e problemi. Solo dopo alcuni decenni si iniziò a riconoscere
l’importanza del toccare come “forma primaria” di contatto ed il suo valore
nella situazione terapeutica.
Attraverso la Bioenergetica,
il cui capostipite fu Lowen, allievo di Reich, i terapisti venivano preparati
ad usare le mani per palpare e sentire la spasticità, o blocchi muscolari, ad
applicare la pressione necessaria, a scaricare o ridurre la contrazione dei
muscoli e a stabilire un contatto mediante un tocco dolce e rassicurante che
dia appoggio e calore.
Sono tanti gli esercizi
proposti nel lavoro terapeutico bioenergetico, come quello dell’Arco. L’Arcuatura corretta del corpo
consiste nel far combaciare il punto centrale delle spalle direttamente sopra
al punto centrale dei piedi: la linea che collega questi punti è un arco
perfetto che passa per il punto centrale dell’articolazione delle anche. Quando
il corpo è in questa posizione ogni sua parte è perfettamente in equilibrio, l’arco
dinamicamente è teso e pronto all’azione ed energeticamente il corpo è carico e
pronto all’azione, un flusso di eccitazione passa per tutto il corpo.
Questa posizione dà al
soggetto la percezione di essere pienamente integrato, saldamente piantato al
suolo con i piedi. A scopo diagnostico è utile per osservare eventuali mancanze
di integrazione del corpo, attraverso le tensioni muscolari che si evidenziano.
Spesso, infatti, emergono difficoltà ad arcuare il corpo per una rigidità
diffusa, per mancanza di flessibilità delle gambe, per la pelvi ritratta.
Al contrario si può
verificare un iperflessibilità della schiena e delle gambe, la pelvi troppo
spinta in avanti, che manifestano una debolezza muscolare ricollegabile ad una
mancanza del senso della spina dorsale.
Un altro disturbo che può
emergere è quello della rottura della linea dell’arco, dovuta ad una grave
ritrazione della pelvi: il flusso del corpo spezzato rappresenta una frammentazione
dell’integrità della personalità (tipica ad esempio dello schizoide e dello
schizofrenico). L’esecuzione dell’esercizio mira a sentire le tensioni del loro
corpo che ne impediscono la corretta esecuzione, tensioni che posso essere
allentate mediante altri esercizi bioenergetici.
Un altro esercizio proposto
dalla Bioenergetica è quello del Grounding.
Questo lavoro consiste nel
tirar giù un individuo sulla terra ferma, permettergli di essere radicato (grounded),
per stabilire un contatto pieno con il suolo che lo sostiene. La maggior parte
delle persone pensa di avere i piedi ben saldi al suolo, ma in realtà non è
così: molte di esse hanno la tendenza a tenere le ginocchia rigide quando
stanno in piedi e, se si chiede loro di flettere le ginocchia, spesso subentra
una vibrazione alle gambe che può evocare la sensazione che queste non le
reggano.
Per una buona posizione
occorre che i piedi sino piantati al suolo non piatti,ma neanche tanto arcuati:
le arcate plantari non devono crollare come nei piedi piatti, né essere troppo
arcate, segno di spasticità o di contrazione dei muscoli del piede.
Ecco un esempio pratico di
Grounding:
Nella posizione grounding
i piedi e le gambe hanno un contatto interattivo con la terra, per
prendere energia, per scaricare le tensioni, per sentirsi sostenuti e mai traditi,
poiché la terra è sempre lì e ovunque a nostra disposizione, poiché la terra è
la realtà stabile, è la piattaforma dove si costruiscono le fondamenta della
persona.
Stando in grounding l’apertura
dei piedi è perpendicolare alle spalle oppure ai fianchi (se sono più larghi),
gli alluci sono lievemente convergenti tra loro, per essere in linea con le
ginocchia che a loro volta sono leggermente flesse, il bacino è lievemente
retratto per agevolare il rilassamento della spina dorsale, la profondità del respiro,
e del fluire dell’energia fino alle dita dei piedi.
Le ginocchia rigide
provocano una forte contrazione dell’ano, della spina dorsale e della
respirazione, non permettono il fluire dell’energia, del sangue e di tutti i
flussi corporei, non danno un equilibrio stabile come contrariamente avviene
quando le ginocchia sono flesse.
Il corpo, nella posizione grounding,
si appropria di una postura solida e radicata nella terra e nella propria
interiorità, si rende pronto all’espansione verso il cielo come i rami di un
albero il cui tronco ha messo lunghe radici nel sottosuolo.
La terra offre un senso di
sicurezza psicofisica stabile, il cielo dona l’energia universale di cui ci
nutriamo attraverso il respiro.
Cielo e terra, padre e madre
simbolici che nel dare il giusto orientamento nel mondo in cui si sta in piedi,
nutrono ed aprono il varco alle percezioni sensoriali di tutte le parti del
corpo.
Il principale scopo del grounding
è la salute in un corpo vibrante con solide fondamenta, proprio per questo
obiettivo ogni classe inizia con molti movimenti dei piedi, delle gambe, della
respirazione e dell’orientamento nello spazio.
Nel linguaggio del corpo
avere i piedi a terra vuol dire essere in contatto con la realtà, significa che
il soggetto non agisce perché spinto dall’influsso di un’illusione, ma essere
radicati è l’opposto di essere “appesi”, “fissati”.
Una persona è fissata quando
è in un conflitto emotivo che la immobilizza. Un esempio può essere quello di
una ragazza che è attratta da un ragazzo e sente di aver bisogno di lui, ma ha
paura del suo rifiuto e sente che se si muove verso di lui si farà del male, così
resta sospesa, fissata.
Al livello bioenergetico la fissazione
(high-ups) consiste nel ritiro dell’energia dai piedi e dalle gambe, energia
che si dirige verso l’alto, il ritiro dell’energia dal suolo. Al livello
somatico, un elemento da osservare per capire se c’è una fissazione è
l’osservazione della postura della metà superiore del corpo.
Lowen definisce la più comune “appendiabiti”: spalle
rialzate (espressione di paura), petto rigonfio, respiro toracico ed affannoso.
Questa postura non si assimila per una singola esperienza, ma spesso è
collegata ad esperienze di paura che per lungo tempo il soggetto da bambino ha
avuto del proprio padre. La persona nega questa paura e nasce la fissazione: non
può avanzare perché ha paura, ma neanche ritirarsi ammettendo di averla, è
emotivamente immobilizzata.
Quindi, come si evince, Lowen
ha egregiamente continuato il discorso reichiano sull’importanza del lavoro
corporeo in terapia, focalizzando la sua attenzione essenzialmente sul
linguaggio del corpo e sul lavoro su di esso.
Anche Perls, come lui, attinse
dall’innovazione reichiana l’attenzione al corpo nel lavoro terapeutico, tuttavia
se ne distaccò per alcune sostanziali differenze.
Ma vediamole più da vicino.
Perls e la Gestalt
Perls considerò che la
tensione muscolare svolgeva la funzione di repressione degli impulsi e del
movimento emotivamente significativo. Egli racchiuse questa visione nel suo
concetto di retroflessione: le contrazioni muscolari erano viste come
ritorsioni sul sé delle azioni che si volevano effettuare sull’ambiente,
pertanto il sistema motorio, perdendo la sua funzione di sistema operativo
attivo e connesso al mondo, attraverso la retroflessione diventa il carceriere
più che l’assistente dei bisogni biologici fondamentali.
Uno dei punto sui quali Perls si
distaccò fortemente da Reich nell’interpretazione dei processi corporei riguardano
due aspetti fondamentali:
1.
Perls guardò all’espressione fisica ed al fatto di
trattenere l’espressione nel contesto del contatto con l’ambiente finalizzato a
soddisfare i bisogni organismici. Egli considerò l’organismo-persona sempre in
relazione al suo ambiente e non solo organizzato intorno ai conflitti e agli
eventi interiori. In tal modo Perls guardava all’espressione corporea e
all’esistenza, alla luce della loro funzione nel contatto con l’ambiente. La
retroflessione (inibizione dell’espressione) emergeva dalla necessità di
ritirarsi dal contatto di fronte ad una situazione pericolosa.
2.
Perls si interessò al corpo non solo per il suo
potenziale di movimento ed espressione, ma anche in termini fenomenologici: si
interessò quindi all’esperienze che il paziente aveva del corpo, al suo senso
del sé, all’Io dell’esperienza come sé corporeo. Essere in contatto con il
proprio sé significa essere in contatto con la propria corporeità, pertanto il
primo passo da fare era quella di mettere in contatto il paziente con la
propria corporeità, per fare emergere consapevolezze sul proprio sé. Lo scopo
di tale lavoro è quello di ristabilire le “funzioni-Io”, dissolvere la rigidità
del corpo e l’Io pietrificato (il carattere). Attraverso il pieno contatto con
il sintomo nevrotico il paziente è messo nella posizione di dissolverlo.
A differenza di Reich l’enfasi
viene quindi posta sulla consapevolezza e sulla sensazione piuttosto che
sull’espressione. Inoltre, punto di fondamentale importanza per rilevare una
grande differenza tra i due, le tensioni muscolari, le resistenze, i blocchi, che
Reich manipolava per distruggerle e sanare il paziente, per Perls non sono
elementi da eliminare, in quanto parti dell’Io. Eliminare tali elementi sarebbe
come eliminare parti dell’Io della persona. Essi sono invece di fondamentale
importanza per il lavoro terapeutico in quanto, mettendo in contatto il
paziente con le sue resistenze ed i suoi blocchi e con le sue sensazioni
corporee, emergono pensieri, emozioni, convinzioni e, pertanto, rappresentano
fonte importante di consapevolezza.
L’intervento su cui si basa la
terapia reichiana consiste nella respirazione, in esercizi e pressioni dirette
per demolire le resistenze e portare alla luce l’impulso sottostante; l’intervento
di Perls consiste in esperimenti che mirano a far emergere un pieno senso di
sé, consapevolezze ed espressione, assimilazione di materiale non assimilato, integrazione
delle parti tese come parti del sé, per arrivare all’autoregolazione
organismica e ad un buon contatto con l’ambiente.
Perls era ugualmente critico nei
confronti dei metodi che miravano ad allentare tensioni, a far rilassare o
modificare la postura, perché, come sopra detto, essi ignorano i significati
emozionali della tensione e della postura ed incoraggiano il senso di una
scissione tra il sé ed il copro, invece di mirare ad integrarli.
Una delle critiche che è stata
mossa alla terapia della Gestalt è quella di aver trattato l’importanza del
corpo come espressione del sé e come materiale e strumento di lavoro
terapeutico, ma di non aver poi realmente sviluppato un’ampia gamma di tecniche
focalizzate sul corpo, come hanno fatto la terapia reichiana ed altri approcci
unicamente somatici che stanno emergendo
in questi ultimi decenni. Inoltre, tale approccio difetta anche di una base
esplicita e di un fondamento logico per il lavoro corporeo che fa uso del toccare.
In realtà nella terapia della
Gestalt esiste sicuramente una base per una più completa comprensione dei
processi corporei nella terapia, una conoscenza più differenziata del processo
e dell’uso della respirazione, una metodologia ed un fondamento logico per
l’impiego terapeutico del toccare, una più accurata comprensione dell’uso
dell’espressione fisica delle emozioni.
Anzi, è opportuno sottolineare che
la terapia della Gestalt è per definizione una terapia del corpo, in quanto
terapia olistica, che dà attenzione all’organismo nella sua totalità, ma a
differenza di approcci, come quello reichiano, per i quali il corpo rappresenta
il punto centrale della terapia, per la Gestalt questo è solo uno degli
elementi che costituiscono l’unità organismica.
Gli acting tipici della vegetoterapia
sono basati su profonde sollecitazioni nella “corazza”, che portano a sensazioni dolorose o di rilassamento; per la
Gestalt ciò è insufficiente, ai fini di un cambiamento, se non accompagnato da
un processo di consapevolezza.
La consapevolezza in terapia si
sviluppa su tre livelli: corpo-emozione –mente, solo quando sono presenti questi tre elementi essa fluisce liberamente
e solo se ben armonizzati si arriva ad una piena consapevolezza.
Corpo, emozione e pensiero vivono
insieme provocando un vissuto totale di consapevolezza, ciò che Perls definisce
‘piccolo satori’.
Come già detto a proposito della
Vegetoterapia reichiana, un blocco può diventare un sintomo fisico: un mal di
testa, nausea, tensione agli occhi fino a trasformarsi in una vera e propria
malattia: essa si presenta come una figura priva dello sfondo sul quale si è
costruita. Quest’ultimo è costituito dai fenomeni fisiologici, emotivi e
cognitivi dei quali la persona non ha consapevolezza, da qui l’efficacia di un
percorso terapeutico che faccia emergere questo materiale come figura dallo
sfondo, in quanto ogni sintomo, ogni malattia, rappresenta una situazione
incompiuta che reclama attenzione.
La terapia della Gestalt parte da
ciò che appare a livello fenomenologico, da ciò scaturisce l’importanza del
corpo espressione visibile, sede dell’ovvio. Facendo oscillare l’attenzione
sugli aspetti corporei e su libere associazioni è possibile ristabilire il
contatto con lo sfondo, emergono così vissuti dolorosi, sensazioni nuove, sofferenze
evitate e solo attraverso questa via si può giungere ad un cambiamento.
Tutte le tecniche gestaltiche di
esagerazione e repressione hanno lo scopo di ristabilire tale contatto. Spesso
proprio tramite un lavoro di consapevolezza di un gesto o di una tensione si
arriva a rompere il perpetuarsi di comportamenti disfunzionali e dolorosi.
Uno sguardo alla tecnica
Per ristabilire un contatto con le parti del sé e far affiorare quella
consapevolezza tanto ricercata in
terapia bisogna lavorare su più livelli. Un primo livello da superare
all’interno di una psicoterapia è quello di risensibilizzare
il sé del paziente prima ancora di poter operare ad un livello più
profondo. Ovviamente diamo per scontato che qualsiasi tecnica utilizzata da
sola non è sufficiente. Sono in egual modo importanti il contesto terapeutico e
la relazione in cui questo avviene. Senza tale relazione e il contatto del
terapeuta con le proprie sensazioni e i propri sentimenti, la tecnica
terapeutica risulta meccanica e piatta.
Il primo passo verso una risensibilizzazione del paziente si attua
attraverso il lavoro sulla “concentrazione”.
Il processo essenziale è quello di sostenere il paziente a concentrarsi
sull’esperienza del corpo e di sorreggere abbastanza a lungo quella
concentrazione affinché la sensazione diventi chiara e differenziata. Questo
viene fatto commentando le distrazioni che il paziente crea e con domande del
tipo “Cosa senti in questo momento?”,
oppure “Resta in contatto con questa cosa
un altro poco”; o ancora “Cosa ti sta
dicendo il tuo piede?” (ad esempio di una persona che muove ossessivamente
il suo piede). L’obiettivo è quello di spostare l’attenzione dagli aspetti
cognitivi all’esperienza del corpo e consentire che l’esperienza diventi
importante. Ovviamente è importante far capire al paziente che quanto riferisce
si fonda sulla sua sensazione reale e presente, nel suo qui ed ora, e non su
opinioni e definizioni precostituite o su quanto il soggetto crede di stare sentendo. Egualmente
importante in questa fase è lo sviluppo del linguaggio per descrivere
l’esperienza del corpo con specificità. Poiché la nostra esperienza interiore
non è pubblica e se ne parla raramente, ed è spesso percepita in maniera
inesatta, frequentemente non abbiamo stabilito una relazione tra un linguaggio
accurato e la nostra esperienza. Senza un linguaggio le nostre sensazioni
diventano ancora più difficili da discriminare l’una dall’altra. Molto
importante, infatti, quando il paziente descrive una sensazione è cercare di
stimolarlo anche suggerendo definizioni inaccurate, ma con il vantaggio di
fornire al soggetto qualcosa da rifiutare e invogliarlo a trovare il proprio
modo di descrivere le sensazioni. Ad esempio se un soggetto riferisce di
“sentirsi stanco”, si può chiedere “Dove ti senti stanco?; In che modo ti senti
stanco in questo momento?; È una stanchezza pesante?; Fa sentire
svuotati o semplicemente sfiniti?”
e così via… Ancora si può cercare di accrescere la consapevolezza delle proprie
sensazioni esagerando le tensioni,
per acquisire una descrizione verbale dell’esperienza più ricca e completa.
L’intensificazione dà anche inizio al processo di appropriazione in quanto se
il soggetto è in grado di eseguire il compito consapevolmente, può anche
cominciare a sperimentare che è lui stesso a provocare delle tensioni.
Un altro aspetto da curare è la respirazione:
quest’ultima infatti è fondamentale quando interveniamo per sviluppare
sensazioni o per vivere di più le esperienze. Per sostenere la sensazione non
si richiede una respirazione particolarmente profonda o laboriosa, né nessun
grande “onere”. Quello che si richiede invece è un processo di inspirazione ed espirazione continuo e regolare, un
tipo di respirazione semplice e naturale, in assenza del quale il corpo è
bloccato e la consapevolezza degli eventi corporei risulta molto impoverita.
Un ultimo aspetto da considerare nel processo di risensibilizzazione è la rivitalizzazione del corpo. È quando la
desensibilizzazione è divenuta strutturale, attraverso la tensione cronica e
l’insensibilità del tessuto, che si rende necessario un lavoro che sia
maggiormente centrato sul corpo. La consapevolezza da sola non può ravvivare
queste aree limitate strutturalmente nella loro sensitività, ma attraverso
esperienze come il movimento libero e
spontaneo, l’aerobica, la bioenergetica, lo Hatha yoga, la danza e le forme
di movimento delle arti marziali, quali il T’ai Chi Ch’uan, possono essere
utilizzate per stimolare ed aprire i tessuti corporei. La cosa importante qui è
che l’esercizio e i movimenti non siano adoperati rigidamente o meccanicamente.
In qualsiasi intervento fisico, sia esso toccare, usare il movimento o il
lavoro sul respiro, l’interesse del terapeuta della Gestalt è nell’esperienza che si genera al momento
piuttosto che attenersi a delle regole prestabilite.
Ristabilire la sensazione del corpo attraverso il lavoro sulla
desensibilizzazione può contribuire notevolmente al nostro processo di
guarigione, tuttavia da sola la consapevolezza non è sufficiente a guidare il
nostro funzionamento. Molto utile risulta poi esplorare i processi sottostanti e, affinché avvenga un cambiamento
completo è necessario che anche il comportamento cambi, cioè che la consapevolezza venga tradotta in azione.
Per
una più completa trattazione dell’argomento, risulta opportuno soffermarsi su
alcune delle discipline che stanno emergendo in questi ultimi tempi, già
accennate precedentemente, i cui principi sono perfettamente in linea con
quelli della terapia della Gestalt e pertanto possono rappresentare dei buoni
spunti di integrazione per un lavoro terapeutico.
Uno
di questi è il Metodo Feldenkreis.
Il metodo
Felderkreis
Nel
libro “L’Io Potente”, Feldenkreis
mette in luce le principali linee del suo pensiero, strettamente connesse, come
si potrà evincere, a quelle della terapia della Gestalt e dell’Analisi
Transazionale.
Feldenkreis,
infatti, sottolinea come schemi abituali siano riattivati continuamente da
associazioni mentali astratte, da stati vegetativi del corpo, da schemi
muscolari e schemi posturali, tutti formatisi, in un modo strettamente
personale, nel corso della storia del soggetto. Aggiunge, inoltre, che senza
poter apprendere un miglior metodo di auto-direzione, ci si trova ad usare il
vecchio schema abituale, a ricreare o a mettersi in condizioni che si è in
grado di gestire, anche se dolorose. Perciò, per portare il soggetto ad un
cambiamento, oltre a rifiutare mentalmente la vecchia abitudine, occorre
coltivare un nuovo insieme di abitudini, di modo che non ci sia più bisogno di
ripristinare quelle scartate. Questo concetto richiama chiaramente quello di Copione perché pone l’accento al
ripetersi di schemi mentali appresi nei primi anni di vita che, seppure
disfunzionali, caratterizzano poi tutta
la vita di una persona, nonostante portino sofferenza, perché si tratta
comunque di una sofferenza a lei familiare, nota.
L’obiettivo
della pratica di Feldenkreis è quello di far ampliare al soggetto la gamma di
possibili schemi mentali, attraverso tecniche corporee. Feldenkreis dà al
soggetto l’opportunità di allargare i suoi orizzonti e, facendogli cadere
convinzioni e rigidi schemi, gli dà il permesso di osare, di conoscere
nuove sensazioni, nuove percezioni di sé.
Il permesso di cui ha bisogno la persona trova
la sua corrispondenza in quello che il terapeuta dà in seduta al paziente.
Anche qui, quindi, si può evidenziare un forte nesso tra tale disciplina e la
terapia della Gestalt. Essa, così come l’Analisi Transazionale, sottolinea
quanto sia importante per il paziente ricevere “permessi” dal terapeuta: il
paziente che in terapia scopre parti di sé, emozioni, sensazioni, pulsioni che
non si è mai concesso perché non rientrano nei suoi schemi emozionali e
comportamentali appresi durante l’infanzia (in quanto frustrati da messaggi
genitoriali), grazie all’“accoglienza” terapeutica si sente libero di esprimere
un sé più pieno ed autentico.
Attraverso
esercizi corporei Feldenkreis stimola il soggetto a superare resistenze, blocchi,
rigidità fisiche (e quindi mentali) portandolo pian piano ad assimilare la
“postura corretta”, che secondo Feldenkreis è una questione di crescita emotiva
e di apprendimento, e consiste nel riconoscere, nella totalità della situazione
(ambiente, mente e corpo), una relazione sottoforma di sensazione corporea. In
altri termini la postura corretta è quella che permette al soggetto di muoversi
ed agire nella maniera più funzionale nel suo ambiente e nel qui ed ora.
Proprio perché è un concetto che ha a che fare con l’azione, Feldenkreis parla
di attura
più che di postura corretta: il modo in cui un’azione viene compiuta al
meglio da un essere umano.
A
questo proposito egli sottolinea che non esiste UNA attura corretta, ma una
vasta gamma, che è bene far conoscere al soggetto per far sì che questi scelga
quella migliore per lui in un dato momento e che non ripeti quindi l’unica,
spesso disfunzionale, che conosce.
Tuttavia
parla di 4 punti generali che riguardano l’attura corretta:
1.
ASSENZA DI SFORZO: nell’azione ben fatta la sensazione
di sforzo è assente, indipendentemente dall’effettivo dispendio di energia.
2.
ASSENZA DI RESISTENZA: la sensazione di resistenza è
prodotta da impulsi tra loro contraddittori che arrivano ai muscoli volontari
scheletrici. In questi casi, al corpo viene impedito di aggiustarsi al miglior
allineamento da un atto volontario, così abituale che la persona vi ritorna
senza nemmeno metterne in dubbio l’adeguatezza. La questione della resistenza è
importantissima perché, ignorandola, il soggetto continua ad agire contro se
stesso mentre è convinto di lottare per superare difficoltà oggettive. Inoltre
senza la consapevolezza della resistenza non è possibile sbarazzarsene.
3.
PRESENZA DELLA REVERSIBILITÀ: questo è l’aspetto
principale dell’attura corretta: in ogni istante o stadio di un atto corretto,
questo può essere fermato, sospeso o invertito senza nessun preliminare
cambiamento di atteggiamento e senza sforzo.
4.
RESPIRO E POSTURA SCORRETTA: trattenere il respiro è il
segno più evidente di postura scorretta. La maggior parte delle persone tendono
a trattenere il respiro. La loro immagine corporea è tale che, prima di parlare
o di iniziare un qualsiasi movimento, devono produrre un riarrangiamento
preparatorio della gola, del torace e dell’addome. Gli effetti ricadono
sull’equilibrio acido-basico del sangue. Basti pensare che, in condizioni di
estrema alcalinità del sangue, i muscoli si contraggono al minimo stimolo
esterno o all’inizio di qualsiasi atto e si instaura la tetanizzazione. Se il
sangue è estremamente acido, come ad esempio nel diabete, non è possibile
evocare alcuna risposta muscolare, c’è uno stato di coma.
Feldenkreis,
anche a questo proposito sottolinea che non si insegna IL modo corretto di
respirare, ma tutti i possibili modi di farlo.
L’effetto
finale è che in ogni situazione la struttura si aggiusta nel miglior modo
possibile perché si diventa consapevoli di “contrazioni parassitarie”, che
si mantengono, non perché abbiano uno scopo, ma solo per effetto di un’
abituale attura appresa insana.
Anche
a questo punto sembra opportuno focalizzare l’attenzione su un altro aspetto
che accomuna il pensiero di Feldenkreis e quello che caratterizza la terapia
della Gestalt: come Feldenkreis parla di contrazioni parassitarie, intendendo
quegli schemi mentali, emotivi, espressivi appresi durante l’infanzia, manifestati
attraverso il corpo, che coprono tutt’una serie di altre possibilità espressive
di una persona, anche la Gestalt parla
di meccanismi parassitari e più precisamente di emozioni parassitarie per indicare quelle manifeste, apprese
durante l’infanzia, sotto le quali si celano quelle naturali. Per entrambi gli
esponenti il lavoro da fare è quello di far emergere le emozioni, le
sensazioni, le azioni, i movimenti più spontanei, autentici, naturali
dell’essere umano.
Un
esempio pratico della tecnica di Feldenkreis è il seguente: dalla posizione
originale supina, sollevare gambe ed i fianchi dal pavimento ed appoggiare il
peso sulle spalle, immobili, nel modo più confortevole in cui si riesce a
farlo. Osservare l’atteggiamento, allo scopo di confrontarlo poi con quello che
si assumerà successivamente. Liberare il basso addome dalla tensione non
necessaria e lasciare che il respiro prenda il proprio ritmo pensando ad un
respiro calmo. Restare in questa posizione per circa un minuto, si instaurerà
un respiro uniforme.
È
possibile che l’irrigidimento parassitario sia dovuto ad un movente che ci induce
ad essere rigidi, o forse all’idea di essere vecchi, o al timore di una
debolezza dei muscoli del collo, o a qualsiasi altra motivazione. Inibire
semplicemente la motivazione estranea, attraverso una chiara proiezione dell’idea
di essere liberi da tensioni, fa aumentare in alcuni secondi l’ accentuazione
della curva della colonna e a ciò si accompagna spesso la scoperta di qualche
motivo personale dietro alla rigidità fino a pochi istanti prima non
riconosciuta.
Ora,
ad ogni espirazione, le gambe si muovono verso la testa e si allontanano dalla
testa ad ogni inspirazione. Basta trattenere il respiro, come quando ci si
aspetta un dolore o un pericolo, per far sì che ci si irrigidisca. Imparando ad
inibire questa motivazione, il corpo rotola ancora più indietro.
Per
agevolare la flessione del corpo, si può iniziare a toccare il suolo con un sol
piede, ben alla destra della testa e poi con
l’altro piede ben a sinistra della testa.
Dopo
tale esplorazione, è possibile toccare ogni punto facendo compiere al piede un
ampio arco di circonferenza, poi unire i piedi proprio al di sopra della testa.
A
questo punto è importante memorizzare la sensazione del corpo, semplicemente
ripristinando la sensazione o immagine corporea memorizzata: una volta che il
corpo è tornato disteso nella posizione supina, riportarlo nella flessione
completa appena appresa. Proiettando chiaramente l’immagine mentale del corpo
libero dall’interferenza di contrazioni lungo tutta la colonna vertebrale, è
possibile piegarsi fino al punto di toccare il suolo con il dorso dei piedi.
Coloro
che hanno l’atteggiamento di “non sono capace”, “è difficile”, “sono troppo
vecchio”, sono invitati ad aggirare queste motivazioni parassitarie, considerando
solo le istruzioni necessarie per compiere l’azione desiderata.
Per
portare la persona a rendersi conto emotivamente della disfunzionalità dei suoi
schemi mentali, bisogna infrangere le sue resistenze. Tuttavia, un punto
fondamentale su cui soffermare l’attenzione, è che tale rottura viene fatta
direttamente attraverso il corpo e non attraverso il linguaggio; inoltre non si
chiede al soggetto di rinunciare al vecchio schema, ma ampliando la sua gamma
di possibilità, lo si mette in condizioni di fare una scelta più libera, non
più quella compulsiva legata ad un’unica alternativa.
Pertanto
il metodo Feldenkreis si basa sul dare per prima cosa i mezzi al soggetto, così
che la compulsività viene abolita, la resistenza diventa conscia, spesso sotto
forma di un’improvvisa intuizione. In altri termini, la resistenza si risolve
facendola diventare non più necessaria.
Questo
punto richiama molto l’approccio della terapia della Gestalt verso le
resistenze, fattori, come si è già detto, che scemano pian piano attraverso un
percorso di consapevolezza e non attraverso manipolazioni esterne e di forte
impatto che mirano alla loro distruzione.
Le
tecniche di Feldenkreis mirano a correggere e riformare l’uso generale di sé, mirano
quindi ad un’integrazione più piena del sé, presupposto essenziale per il
benessere dell’individuo.
Feldenkreis
afferma inoltre che il benessere individuale non può prescindere da quello
sociale e viceversa, pertanto oltre l’integrazione individuale è strettamente
connessa con quella dell’individuo nell’ambiente. Una buona integrazione
sociale richiede la consapevolezza che il nostro benessere dipende dagli altri.
A
questo proposito è interessante presentare un’ulteriore disciplina che sta
emergendo in questi ultimi anni e che fonda i
suoi principi proprio sull’importanza di quest’ultimo punto: la
biodanza.
La
Biodanza
Origine della Biodanza
«L’Arte ci
è stata data per non morire di Verità»
Nietzsche
Dagli anni ’50 si è iniziato a parlare di arteterapia come forma di terapia
alternativa. L'arteterapia può essere definita come l’insieme dei trattamenti
terapeutici che utilizzano come principale strumento il ricorso all’espressione
artistica allo scopo di promuovere la salute e favorire la guarigione, e si
propone come una tecnica dai molteplici contesti applicativi, che vanno dalla
terapia e la riabilitazione al miglioramento della qualità della vita. Le
risorse utilizzate sono le potenzialità che ognuno di noi possiede, chi più chi
meno, di elaborare il proprio vissuto e di esprimerlo creativamente; dove
educare sta per e-ducere, cioè portar fuori e, nella pratica terapeutica e
riabilitativa, portar fuori dal buio verso una maggiore conoscenza e
consapevolezza. Il focus
dell’arteterapia, più che sul prodotto artistico finale, è sul processo
creativo in sé. Ciò che è importante è soprattutto l’esprimersi, il creare.
L’atto di produrre un’impronta creativa, infatti, permette all’individuo di
accedere agli aspetti più intimi e nascosti di sé, di contattare ed esprimere
le emozioni più recondite e spesso inaspettate, e di sperimentare e potenziare
abilità spesso ignorate o inutilizzate. In questo senso il processo creativo,
al di là del contenuto e del risultato finale, è già terapeutico in sé.
All’interno di questo giovane panorama terapeutico ai fini della nostra
trattazione ci concentreremo sulla Biodanza per la naturale connessione che
questa forma di terapia ha con il corpo. Il prefisso “bio” deriva dal greco
bios, che significa vita. Il senso primordiale della parola “danza” è
“movimento naturale”, connesso all’emozione e pieno di significati. La metafora
che ne deriva è: Biodanza, la danza della vita.
La Biodanza è un sistema di
integrazione umana, di rinnovamento organico, di rieducazione affettiva e di
riapprendimento delle funzioni originarie della vita. La sua metodologia
consiste nell’indurre vivencia integranti attraverso la musica, il canto, il
movimento e delle situazioni di incontro di gruppo.
La vivencia è un termine intraducibile in italiano che rappresenta
“un’esperienza vissuta con grande intensità da un individuo nel momento
presente, che coinvolge la cenestesia, le funzioni viscerali ed emozionali”. La
vivencia conferisce all’esperienza soggettiva di ogni singolo individuo la
palpitante qualità esistenziale del vissuto - qui ed ora -.
Nato nel 1965 presso l’ospedale psichiatrico di Santiago del Cile, il suo
inventore Rolando Toro propose esperienze di danza con dei soggetti
psichiatrici nell’ottica di “umanizzare la medicina” secondo le nuove
concezioni proposte da Carl Rogers. Durante queste sessioni di danza iniziò a
notare che alcune musiche e movimenti provocavano in loro stati di
dissociazione ancora più gravi, mentre altri tipi rinforzavano il senso della
propria identità e facevano sì che i soggetti aumentassero la loro
comunicazione e migliorassero il loro giudizio della realtà.
Da qui si iniziò a prefigurare un continuum tra identità e trance,
sostituito successivamente dal continuum identità/regressione. Ai soggetti
psicotici davano benessere esercizi e musiche appartenenti alla sfera
dell’identità, mentre al contrario con persone stressate, tese, angosciate o
sofferenti di disturbi psicosomatici (ad esempio ipertensione arteriosa, ulcera
gastrica ecc.) esercizi appartenenti alla sfera della trance/regressione
migliorava sensibilmente il loro stato fungendo da ansiolitici.
Successivamente l’approfondimento teorico e pratico di questo modello ha
portato ad un modello contenente, oltre all’asse orizzontale
identità/regressione, anche un asse verticale e le “cinque linee di vivencia”,
che rappresentano l’espressione e l’integrazione del potenziale genetico umano.
Per una comprensione completa del modello teorico della biodanza si rimanda
ai testi di riferimento. Per la nostra trattazione prenderemo in considerazione
solamente gli aspetti più pratici che si collegano alla parte esperienziale.
Lo scopo della Biodanza
Il presupposto teorico su cui si basa questa forma di terapia, è quello in
base al quale tensioni muscolari e modalità posturali e di movimento (uso dello
spazio, tempi, ritmi, etc.) riflettono tensioni e modalità psicologiche; per
cui, lavorare per prendere consapevolezza e sciogliere tali tensioni fisiche
comporta l’entrare in contatto e il risolvere i blocchi emotivi e psicologici.
La danza può essere vista come un dramma, in cui il linguaggio del corpo
sostituisce quello verbale. L’obiettivo principale è mettersi in contatto con
il proprio corpo e dare ascolto alle emozioni che vi albergano, ma i benefici
dell’uso del movimento e della danza si estendono a più livelli. Ad un livello
puramente fisico permette di ampliare il repertorio motorio e migliorare la
coordinazione ed il tono muscolare, ad un livello psicologico si interviene
sulle modalità di espressione di sé e sui livelli di adattamento alla realtà,
ad un livello sociale, infine, si lavora sul modo di interagire con il gruppo e
dunque sulle capacità comunicativo-relazionali.
Nello specifico, la ricerca di sé in Biodanza si compie attraverso una
sensibilizzazione profonda alla vita che è in se stessi, nell’altro e nella
natura. Rolando Toro non propone soluzioni ai misteri che permeano l’esistenza
umana, ma la possibilità di condividerli nell’amore. Pensa sia necessario agire
sulla parte sana di ciascuno, e non sui sintomi isolati; danzare e mettere
musica nei nostri movimenti; integrare l’intelligenza con l’affettività e
approfondire il nostro legame originario con la vita. Per raggiungere questi
obiettivi ha formulato una metodologia basata sul risveglio della funzione
primordiale di connessione con la vita, funzione che è intrinseca di tutti gli
esseri viventi e che consente a ciascun individuo di integrarsi con se stesso, con la specie, e con l’universo.
In Biodanza il processo di integrazione si attua mediante la stimolazione
della funzione primordiale di connessione con la vita, che consente a ciascun
individuo:
1. L’integrazione a sé che consiste di riscattare
l’unità psicofisica;
2. L’integrazione al simile che consiste nel
restaurare il vincolo originario con la specie come totalità biologica;
3. L’integrazione all’universo che consiste nel
riscattare il legame primordiale che unisce l’uomo alla natura e nel
riconoscersi parte di una totalità maggiore, il cosmo.
Questa stimolazione si attua attraverso una serie di esercizi. L’esercizio
della Biodanza si pone nell’ottica dell’incontro.
Esso ha come impegno lo sviluppo e il nutrimento dei legami che uniscono a sé,
all’altro, al mondo. Attraverso l’esperienza singolare del corpo e della sensibilità. L’esercizio della Biodanza non lega il
corpo allo sforzo e alla prova di sé, non assegna al movimento il ruolo di
supporto vitale del pensiero, ma mette in scena, nella sua semplicità, nella
sua purezza, il corpo vivente. Il
corpo prolunga nello spazio del gesto l’emozione e la condivide; esprime la
vita che lo sostiene; è la totalità dell’essere sotto forma di sensibilità.
Gli esercizi tendono a stimolare l’intero potenziale genetico umano
attraverso le “5 linee di vivencia”:
1. Linea
della vitalità: legata ad
alcuni indici visibili come la facilità a ridere; la forza degli istinti;
l’agilità dei movimenti; il suono e l’espressione della voce, la luce e
l’intensità dello sguardo, l’armonia e la potenza dei gesti. Gli indici di
vitalità di un individuo, tuttavia, non sono costanti; essi variano
sensibilmente nel corso dei vari periodi della vita. Le motivazioni
esistenziali come l’amore e la creatività, così come il cambiamento di ambiente
e, in particolare, il contatto con la natura, hanno un’influenza straordinaria
sul valore di questi indici, che, indubbiamente, non sono nient’altro che
l’espressione tecnico-sperimentale dello stile di vita e della realtà
dell’“essere-al-mondo”. Il campo della vitalità si estende anche alla
cosiddetta “vitalità esistenziale”, la cui mancanza porta a conflitti emotivi,
difficoltà di comunicazione, assenza di una visione globale dell’esistenza ecc.
2. Linea
della sessualità: Solitamente
tendiamo a trascurare il nostro corpo, gli diamo poco amore e sottostimiamo i
suoi segnali. Tramite esercizi di stimolazione di questa linea scopriamo che il
corpo è gentile, è tenero e possiede un’armonia meravigliosa, è voluttuoso e
intrinsecamente bello. Rafforzare la propria sensibilità per trovare le strade
che conducono al piacere fa parte dell’apprendimento proposto in Biodanza.
Imparare a gioire di tutti i grandi e piccoli problemi della vita è la cosa più
importante. Il piacere della danza, nel senso che gli da la biodanza, è la
prima apertura. Imparare a sentire la musica in stato di trance ne è un’altra.
Diventare coscienti dei piaceri quotidiani è la terza strada. Sviluppare tutte
le possibilità dell’erotismo è la quarta. Non esiste vero piacere che non
provenga dalla profondità e dallo slancio naturale verso la vita.
3. Linea
della creatività: legata
all’istinto di esplorazione e all’impulso di innovazione presente negli
organismi viventi, essi facilitano l’adattamento e culminano nella creatività
umana. La civiltà reprime la nostra funzione naturale della creatività che
andiamo invece a stimolare con questi esercizi.
4. Linea
dell’affettività: per
affettività si intende uno stato di affinità profonda verso gli altri esseri
umani, capaci di originare sentimenti di amore, amicizia, altruismo, maternità,
paternità, solidarietà. Senza dubbio anche sentimenti opposti come l’ira, le
gelosie, l’insicurezza, l’invidia possono considerarsi componenti di questo
complesso fenomeno. Tuttavia l’affettività non è soltanto l’espressione di un
sentimento individuale o di una forma sottile di comunicazione, ma anche la
manifestazione di messaggi relazionali preesistenti in ciascuno di noi che
predispongono i legami affettivi tra gli esseri umani. Il fatto che la sola
presenza di una persona provochi modifiche nel tono muscolare e a livello
neurofisiologico indica che esiste un continuum affettivo tra gli esseri umani.
La percezione dell’altro provoca risposte che abbracciano la totalità
dell’organismo, e non solo le emozioni.
5. Linea
della trascendenza: per
trascendenza si intende il superamento della forza del proprio Io e la
possibilità di andare più in là dell’autopercezione, per identificarsi con
l’unità della natura e l’essenza delle cose. L’impressione di legame intimo con
la natura e con il prossimo è un’esperienza culminante che si prova poche volte
nella vita. Provarla anche una sola volta permette di cambiare il proprio
atteggiamento di fronte a sé e agli altri. Sapere con certezza che non siamo
isolati, che partecipiamo al movimento unificante del cosmo, è un’esperienza
sufficiente per spostare la nostra scala di valori. Ma questo “sapere con
certezza” non è intellettuale: è commovente e trascendente.
Esercizi di Biodanza
Gli incontri di Biodanza ruotano
intorno alla figura del facilitatore o del didatta. Questi ultimi seguono un
ciclo triennale di studio e di apprendimento definito “vivenciale” che dà molta
importanza alla dimensione personale dell’esperienza e delle emozioni. Gli
esercizi realizzati nel corso delle sessioni di Biodanza inducono stati di
coscienza particolari (espansione della coscienza provocata dalle endorfine la
cui produzione è stimolata dagli esercizi sul sistema parasimpatico) che
possono accelerare lo sviluppo spirituale.
Purtroppo la diffusione del sapere
della Biodanza raggiunge un carattere quasi “settario” in quanto c’è il massimo
riserbo su questa disciplina la cui conoscenza si acquisisce solo tramite la
frequenza di corsi riconosciuti. Anche le risorse open source come la rete
globale sono quasi del tutto prive di approfondimenti più specifici e lo stesso
libro utilizzato per la stesura di questo breve trattato, nonostante sia stata
una lettura interessante, è carente su molti aspetti riguardanti comunque la
tecnica più da vicino.
Si rimanda ad altre fonti per ulteriori approfondimenti.
Bibliografia
Feldenkreis, M.,
2007, L'Io
Potente, Roma, Casa EditriceAstrolabio, Ubaldini Editore.
Ferrara, A.,
1988, “La psicoterapia della
Gestalt e il corpo”, Quaderni di Gestalt n.6/7,
pp. 151-156.
1997, Body Process. Il lavoro con il corpo in
psicoterapia, Milano, Franco Angeli.
Lowen, A.,
2007, Bioenergetica,
Milano, Feltrinelli Editore.
2008, Il
linguaggio del corpo, Milano, Feltrinelli Editore.
Matuk, E.,
2007, La Biodanza,
Milano, Edizioni Red.
2011, Psicoterapia della Gestalt contemporanea.
Esperienze e strumenti a confronto, Milano, Franco Angeli.
Sitografia
Articolo scritto a quattro mani da:
Dott.ssa Ambra ADAMO
Psicologa
Psicoterapeuta in formazione e supervisione ad orientamento Gestaltico e Analitico Transazionale
Studio Privato : Via Tino da Camaino n° 9, Napoli
Cell.: 366271592
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