Si chiami homo perché è fatto di humus (Terra)
M. Heidegger
“La Cura mentre stava
attraversando un fiume, scorse dal fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un
po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia
fatto, interviene Giove. La Cura lo prega di infondere lo spirito a ciò che
essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la Cura pretese
imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che
fosse imposto il proprio. Mentre la Cura e Giove disputavano sul nome,
intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse
imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo.
I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la
seguente giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento
della morte riceverai lo spirito. Tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il
corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che
esso viva lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si
chiami homo perché è fatto di humus (Terra)”[1].
In questa fabula, che Heidegger riporta in Essere e Tempo, l’uomo è forgiato dalla
Cura e ad essa appartiene per il tempo della sua vita. In tale senso la Cura
non è intesa come un atto o una serie di atti ma l’essenza
dell’essere-nel-mondo dell’uomo, dell’Esserci. Essa ha “un’apriorità
esistenziale” per cui viene prima degli atti di cura: si situa prima di ogni
comportamento e di ogni situazione in cui l’Esserci si trova[2].
La Cura è un esistenziale, e in quanto tale definisce l’umanità
dell’uomo. Senza Cura, non vi è umanità. Dal suo primo sguardo sul mondo,
ciascuno si trova nella condizione esistenziale di appartenere alla Cura. Se
noi siamo plasmati dalla Cura, se siamo esistenzialmente Cura, non possiamo
certamente dipendere dagli atti di cura[3].
Dunque il tentativo di Cura fallisce a priori dato che qui
non lo intendiamo come atto, ma come un esistenziale. La rivelazione
dell’Esserci come Cura implica che l’Esser-ci in quanto con-esserci si rapporta
al mondo secondo le determinazioni del prendersi
cura e dell’aver cura. L’aver cura è “l’incontro (autentico) col
con-esserci degli altri nel mondo”, distinto dal prendersi cura inteso come l’esser
presso le cose, che riduce l’altro a un “utilizzabile”, lo sottopone secondo
Levinas a uno “sguardo totalizzante”, molto più semplicemente, non lo rende una
“cosa” come afferma Buber[4].
Se io ho cura di
me e ho cura di aver cura di me,
allora mi “pre-occupo”[5] dei
miei comportamenti e di tutte le situazioni in cui vengo a trovarmi. Ancora se ho
cura di me e degli altri allora considero me, iscrivo me e allo stesso modo gli
altri di cui ho cura nella molteplicità delle possibilità dei modi di essere
dell’esserci. La dimensione dell’aver
cura schiude quindi l’esistenza dei singoli membri, ne definisce il poter-essere,
ossia la progettualità esistenziale. Nel momento in cui mi prendo cura sto inevitabilmente facendo riferimento ad un
oggetto, quindi prendendomi cura di
una persona ne sto negando l’esistenza.
“La vita dell’essere umano […] non consiste soltanto in
attività che hanno un qualcosa per oggetto. Percepisco qualcosa. Provo
qualcosa. Mi rappresento qualcosa. Voglio qualcosa. Sento qualcosa. Penso
qualcosa. […] cose di questo genere insieme, fondano il regno dell’esso. Ma il
regno del tu ha un altro fondamento. Chi dice tu non ha alcun qualcosa per
oggetto. Poiché dove è qualcosa, è un altro qualcosa; ogni esso confina con un
altro esso; l’esso è tale, solo quando confina con un altro. Ma dove si dice
tu, non c’è alcun qualcosa. Il tu non confina. Chi dice tu non ha alcun
qualcosa, ma sta nella relazione”[6].
Aver chiaro questo, come professionisti psicoteraputi, è uno
degli aspetti indiscutibili della terapia col paziente. Se io ho cura del
paziente, si schiuderanno di fronte una ampia gamma di possibilità dei modi di
essere di quella persona e questo permetterà
di guardare più chiaramente nella sua progettualità. Questa essenziale e
sostanziale distinzione tra aver cura
e prendersi cura potrebbe evitare
molte delle controversie e di quelle ambiguità di cui spesso risultano vittima
nostre relazioni.
La cura, il rispetto, l’amicizia, l’amore dovrebbero essere
rappresentanti di legami saldi, e pure le istituzioni pubbliche dovrebbero
poggiare su un rapporto di fiducia sociale schivo di qualsiasi forma di
conflitto di interesse. Invece proprio le istituzioni sembrano fondarsi sulla
competizione e la brama di dominare gli uni sugli altri e tutto questo genera
spiacevoli incombenze. Infatti come osserva Virginia Held, si tende a
considerare innovativo soltanto ciò che ha a che fare con il governo e la
produzione. Invece, se si riuscisse a guardare alla convivenza umana, alla luce
di quanto detto, potremmo riconoscere una nuova centralità, quella del rapporto
fra la persona capace di cura materna e il bambino che, molto più della
competizione e del dominio sugli altri, è relazione dell’orizzonte
specificamente umano[7].
Infatti aver cura dell’esistenza porta con sé un desiderio
di trascendenza, di oltrepassare una situazione data per porsi di fronte al
possibile, a ciò che autenticamente rappresenta il proprio poter essere; aver
cura è, in questa prospettiva, “farsi soggetti capaci di generare mondi[8]”. La
componente generativa dell’aver cura è evidente nella matrice etica della cura
materna, che non si limita a far nascere biologicamente il figlio, ma lo fa
nascere in quanto soggetto, portatore di possibilità di esistenza che vanno tutelate e promosse[9].
L’agire materno “sufficientemente adeguato” rappresenta un
vero e proprio versante di riflessione sull’etica pubblica, nella misura in cui
questa si muove nella direzione di promuovere la vita e le possibilità di chi
viene al mondo[10].
È risultato sostanziale tenere presente questa differenza
nella terapia con i pazienti, tuttavia questo è solo uno degli aspetti da
tenere in considerazione nella relazione terapeutica. Sono specializzata in
psicoterapia ad indirizzo antropologico trasformazionale. Tale orientamento
individua un inedito dispositivo di cura: il soggetto collettivo curante. La
caratteristica specifica di quest’approccio, che discende dal lavoro di pratica
sociale e di ricerca clinica di psicologi e di psichiatri all’interno dei
servizi di salute mentale, sta nell’utilizzo di una “terapeuticità” diffusa,
collettiva, transindividuale. Sicuramente è importante non essere l’unico
titolare della “terapeuticità” del processo di cura, nel senso di una
collaborazione tra altre figure professionali. Ma indubbiamente questo non
basta. Colgo con piacere l’invito di G. Buonaiuto rispetto ad una
sensibilizzazione tra vari detentori del sapere[11].
Credo fermamente che bisogna essere inclini alla pluralità,
anziché solidificarsi e dogmatizzarsi in un sistema di dottrine; bisogna lasciare
ampi margini per ulteriori sviluppi e per un costante arricchimento, perché
solo con feconde contaminazioni possiamo riuscire umilmente ad essere autentici
professionisti. Non si smette mai di formarsi, di apprendere, di confrontarsi:
la mia esperienza mi insegna che con una forte indipendenza e creatività si
possono elaborare efficienti prospettive. Si ricordi che nemmeno i più stretti
allievi, collaboratori e assistenti di Husserl, come Edith Stein o Eugen Fink,
addirittura Martin Heidegger, possono essere definiti husserliani[12].
[1] M.
Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1976.
[2] Ibidem.
[3] Questa è la condizione in cui viene a trovarsi il neonato
che dipende dagli atti di cura della madre.
[4] M.
Buber, Il principio dialogico e altri saggi, Milano, San Paolo, 1993, p. 27.
[5] Uno dei
significati originari di cura è proprio
quello di pre-occupazione spiega M. Conte, ne “La cura come esistenziale
pedagogico”, in Encyclopaideia, 2001.
[6] Ibidem,
p. 60.
[7] V. Held,
Etica femminista. Trasformazioni della coscienza e famiglia post-patriarcale, Milano,
Feltrinelli, 1997.
[8] L.
Mortari, aver cura della vita della mente, Firenze, La nuova Italia, 2002.
[9] Ibidem
[10] H.
Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica,
Torino, Einaudi, 1990.
[11] G.
Buonaiuto, Il contratto in terapia. Guida pratica per il
primo approccio con il paziente”, Milano, Ferrari Sinibaldi, 2013.
[12] Per chi
vuole approfondire legga Storia della fenomenologia, Antonio Cimino e Vincenzo
Costa, Roma, Carocci, 2012.
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