Il Sogno - Picasso |
A
questo proposito analizzeremo brevemente i meccanismi e il linguaggio che
sottende l’attività onirica, vaglieremo le caratteristiche che rendono il sogno
di cui abbiamo consapevolezza un effimero ricordo e concluderemo esplicitando
in che modo possiamo utilizzare questo materiale ricordato e raccontato per un
buon intervento terapeutico.
1.
Veglia, sonno e sogno
Veglia, sonno
profondo (o sonno non-REM), sonno desincronizzato (o sonno REM) sono tre stati
diversi, ma strettamente integrati, della complessa attività del Sistema
Nervoso Centrale, e rappresentano il continuum vitale dell’uomo. Questi tre
stati sono sottomessi ad una regola fondamentale che si potrebbe definire “della
separazione e della non interferenza”.
Nella normalità infatti, questi stati sono
nettamente separati l’uno dall’altro, il passaggio avviene in maniera graduale
e codificata, particolari meccanismi neurofisiologici, tramite la loro
attivazione o disattivazione, impediscono qualsiasi interferenza o
sovrapposizione[1].
Numerose ricerche
neurofisiologiche e psicofisiologiche
hanno provato a comprendere l’attività onirica che si svolge durante il sonno
REM e non-REM.
Inizialmente si è ritenuto che il sogno in
quanto tale venisse svolto solo durante la fase REM; Foulkes evidenziò invece
una ricca presenza di attività mentale anche durante il sonno non-REM, ed in
corso di addormentamento. Le componenti mentali del sonno non-REM presentavano
una ridotta componente visuo-allucinatoria, un minor coinvolgimento emotivo ed
una povertà e staticità dei personaggi agenti nella scena, con caratteristiche
più simili al pensiero cosciente.
Attualmente molti
ricercatori concordano sul fatto che il lavoro onirico più vivido viene svolto
durante la fase REM e con modalità ben precise. Ad esempio il sogno si esprime
mediante un linguaggio, la cui caratteristica fondamentale è di essere
costituito prevalentemente per immagini[2]. Queste
immagini sono caratterizzate da due proprietà principali: la sinteticità e
l’ambiguità. L’immagine ci fornisce infatti una informazione più rapida e
sintetica, ma in qualche modo anche meno definita e precisa. In altre parole l’immagine,
più della parola, può avere significati multipli, perché essa rende possibili
due meccanismi: la condensazione e lo spostamento. In questo modo
una immagine può fondersi o sostituirsi ad un’altra, dando luogo al simbolo,
che sulla base di connessioni profonde può rappresentare, al di là delle
apparenze qualche cosa di diverso[3].
Sono inoltre caratteristiche del linguaggio
onirico altre due modalità, tipiche del processo primario: assenza delle
categorie temporo-spaziali e persistenza del principio di contraddizione,
per cui possono accadere cose antitetiche ed opposte, senza che questo desti
nel sognatore, stupore o incredulità.
Quindi la struttura del linguaggio onirico è
caratterizzata da spostamento, condensazione, simbolismo, assenza del principio
di continuità, di contiguità e di quello di non contraddizione. Se
questa è la struttura del linguaggio onirico, i contenuti sono immagini che
possono derivare da:
a) immagini riguardanti il passato;
b) immagini tratte da situazioni presenti (resti
diurni);
c) costituzione di immagini completamente
nuove.
Le scene possono essere semplici o molto
complesse ed articolate. Normalmente il soggetto vive il sogno come realtà[4]. L’esperienza
onirica viene successivamente, nella veglia, organizzata in un racconto del
sogno che ascoltato e recepito dal terapeuta ne rende possibile l’interpretazione
o il suo utilizzo.
2.
Il sogno e l’oblio
Come abbiamo
accennato sopra, alcuni studi mostrano che il sogno propriamente detto avviene,
e probabilmente occupa, gran parte della fase REM, che nell’adulto corrisponde
circa il 20% del sonno totale, ovverosia circa 80-90 minuti per notte. Altre
ricerche invece evidenziano che il sogno, per quanto articolato e complesso,
può avvenire nell’arco di pochi secondi[5]. Al di
là della quantità di tempo che spendiamo mediamente ogni notte a sognare, a
parte rare eccezioni legate ad un sonno molto leggero ed interrotto, al mattino
in genere si ricordano solo pochi sogni. Quindi dobbiamo ritenere che di tutta
la complessiva produzione onirica, noi riusciamo a ricordarne solo una parte
minima.
Questo oblio del sogno è dovuto a diverse
cause[6]. Statisticamente
e sperimentalmente si segnala:
· che il
ricordo del sogno cade velocemente dopo la fine del periodo REM;
· che
risvegli notturni o bruschi concedono un ricordo maggiore dei sogni rispetto ai
risvegli graduali;
· che si
ritengono meglio i sogni mattutini, nonché quelli più lunghi e più ricchi di
intensità emotiva.
A queste condizioni generali vanno aggiunte
le differenze individuali, che a livello sperimentale hanno dato i seguenti
risultati:
· ricordano
di più i sogni coloro che hanno una
totalità di tempo onirico maggiore, coloro che presentano un maggiore grado di
ansietà, coloro che tendono ad essere più introspettivi;
· ricordano
di meno coloro che hanno una
personalità più repressiva e meno creativa, come hanno rilevato prove condotte
su studenti di ingegneria rispetto a studenti di discipline artistiche, coloro
che fanno sogni abbastanza realistici e logici, e coloro che hanno una maggior
memoria visiva e che quindi si meravigliano meno dei loro sogni in quanto
possono più facilmente integrarli nel pensiero diurno.
A questo dobbiamo aggiungere le ipotesi
psicoanalitiche che fanno riferimento alla censura,
alla resistenza[7]
e alle condizioni di transfert[8]
che si instaura tra chi fa il resoconto del proprio sogno e l’ascoltatore.
Tutto questo ci fa
dedurre che ci deve essere una differenza
tra la complessiva attività onirica ed il sogno o i sogni che ricordiamo.
È normale che di notte sogniamo e che poi, al risveglio, ci
ricordiamo sotto forma di racconto quello che sogniamo; se dimentico il sogno,
vuol dire che mi dimentico il racconto che ho fatto dell’evento notturno. Se ci
fate caso, quando ci svegliamo ci raccontiamo il sogno, e se il sogno era
particolarmente interessante magari lo raccontiamo ad un amico. Non cerchiamo
di ricordare quello che abbiamo sognato la notte, ma in un certo senso, cerchiamo
di ricordarci il ricordo/racconto che ci siamo fatti al risveglio. E mentre lo
ri-raccontiamo è possibile che ci venga in mente un altro particolare, come se
nell’atto di raccontare si incominciasse ad inserire dei particolari in più,
che vengono vissuti come qualcosa che ci si è dimenticati, ma che più
verosimilmente ci si sta raccontando adesso. Il racconto del sogno è
influenzato anche dal rapporto con la persona alla quale lo sto narrando,
questo è particolarmente evidente quando il sogno è raccontato al proprio
terapeuta.
Si comincia ad articolare e strutturare un racconto: una narrazione del sogno “vissuta come ricordo”.
Si comincia ad articolare e strutturare un racconto: una narrazione del sogno “vissuta come ricordo”.
3.
Il Sogno in terapia
“Il
sogno è un pezzo d’arte che ceselliamo fuori delle nostre vite”.
Perls
Dell’attività onirica
in sé non ne abbiamo coscienza in quanto il sogno reale nessuno sa esattamente
come è fatto: accediamo ai sogni e ne prendiamo consapevolezza solo durante il
nostro stato di veglia e solamente mediante il nostro ricordo e il successivo
racconto. In quest’ottica possiamo considerare il sogno principalmente come “il
ricordo” per eccellenza.
Probabilmente l’attività onirica nel suo
insieme ha numerose e complesse funzioni, il sogno ricordato ha una
funzione specifica diversa. I sogni che si ricordano, riguardano esperienze
oniriche significative e strettamente collegate con le dinamiche psicologiche
conflittuali o comunque più importanti in quel momento, per quella persona.
Possiamo pertanto pensare che i sogni che si ricordano, sono tentativi di
visualizzare ed a volte tentativi di risoluzione di conflitti, di problemi o di
particolari dinamiche psicologiche del soggetto.
Genericamente,
è per lo più riconosciuto che il sogno rende consapevole e comunicabile la
natura e la complessità del mondo interno del sognatore o, più in particolare,
citando Perls, i sogni che ricordiamo sono tentativi di mandare “un messaggio esistenziale” al soggetto
stesso, un modo per comunicargli nel suo particolarissimo linguaggio come
conduce oggi la propria vita. “È più di
una espressione di desiderio, è più di una profezia, è più di una situazione
incompiuta. È un messaggio di te stesso a te stesso, a qualsiasi parte di te ti
stia ascoltando”.
Infatti,
come dicevamo, c’è differenza tra il sogno sognato e il racconto del sogno, che
è anche la concettualizzazione dell’evento onirico in una forma narrativa e la
sua riorganizzazione in termini tali da poter essere ricordato. Solo dopo
questa operazione il sogno può essere raccontato a un altro. La traduzione in
termini narrativi del sogno segue le norme del “sistema di credenze” del
sognatore, che operano nella sua vita da sveglio. Il sogno come lo ricordiamo
è, quindi, anche una rappresentazione dell’organizzazione cognitiva con la
quale costruiamo la nostra visione di noi stessi nel mondo.
È proprio questo aspetto così peculiare del sogno
che lo rende prezioso in terapia. Ma come approcciarci ad esso? Come utilizzare
al meglio, per il soggetto, tutte le informazioni che ci consegna attraverso il
suo ricordo del sogno?
Tutta la letteratura riguardo al sogno, visto come
realtà ricordata e narrata in un contesto psicoterapeutico e sottoposta alla
ricerca analitica di un significato, afferma l’esigenza che la comprensione di
un sogno e l’individuazione dei suoi significati implichi sicuramente più di un
percorso per trovarne il senso. Il soggetto infatti, per così dire, con il
sogno sta facendo assai più di quanto egli stesso se ne renda conto e
conseguentemente occorre utilizzare più percorsi per comprenderne la realtà.
Partiamo
dalla sua interpretazione: abbiamo parlato del linguaggio del sogno che è fatto
di simboli e di meccanismi che sfuggono la logica a cui siamo abituati a
pensare. Il sogno, come il linguaggio del bambino, è fuori dai principi della
logica e dalle categorie dello spazio e del tempo. Ciò non vuole dire che nel
sogno non vi sia logica, ma piuttosto che essa risponde a leggi diverse.
Tuttavia, come riportato sopra, il sogno è allo stesso tempo qualcosa di
strettamente connesso alle dinamiche psicologiche che il soggetto sta vivendo
nel momento attuale. Per questo motivo approcciarsi al sogno secondo i classici
schemi di interpretazione generale può fuorviare e distorcere il messaggio del
sogno e può, in altre parole, privare il sogno della sua spontaneità, e
soprattutto impedirci di considerarlo come la creazione personale di quell’individuo
nella sua unicità. I segni, i simboli e le metafore riportate nei sogni hanno
senza dubbio valore universale, ma essi assumono significati fondamentali per l’individuo
in relazione alla sua personalissima esperienza, frutto di quell’unico modo di
essere nel mondo.
Il
simbolo va inserito nel contesto della realtà del sognatore, con la sua
esperienza culturale e le sue personali vicissitudini: lo sforzo di chi lavora
con il sogno è quello di tradurlo in termini adattabili alla vita quotidiana
del soggetto.
In base a tutte queste considerazioni ne consegue
una particolare modalità di porsi del terapeuta di fronte al sogno del
paziente: esso deve partire dalla premessa che l’unico che ne sa qualcosa in
proposito è proprio lui, il paziente. Il vero specialista nella comprensione
del sogno è chi lo ha sognato. È lui che ne ha costruito la trama e ne possiede
i significati: soprattutto ne ha vissuto l’esperienza. Gli strumenti
interpretativi classici sono insufficienti per accedere alla creatività del
sogno.
Molto
più utile risulta essere un attitudine del terapeuta a “stare” con il
soggetto attraverso un sottile
silenzioso dialogo Io-Tu, un entrare in contatto con la persona che sta di
fronte e con il mondo di sollecitazioni fisiche, emotive e cognitive che sta
offrendo, non rivolgendo l’interesse al solo racconto e ai contenuti del sogno,
ma al processo nella sua globalità. Guardare il paziente con i suoi gesti,
espressioni, respiro, voce, stando attenti ai segnali emotivi, attraverso una
attitudine meditativa e rilassata, permette di entrare in contatto profondo, e
altrettanto profonda risulterà essere la
comprensione dell’esperienza dell’altro.
Attraverso
questo atteggiamento, l’intervento tecnico del terapeuta si farà luce da solo è
sarà più corrispondente a quella specifica relazione, con quello specifico
paziente, che non ad un generico intervento da usare indifferentemente con
questo o con quello.
Una volta raggiunte queste premesse
si può passare poi ad utilizzare una serie di tecniche che possono guidare il
soggetto nel prendere contatto con il contenuto del sogno e soprattutto
permettano di reintegrare le parti alienate di sé.
Spesso
quando un paziente racconta un sogno, lo fa con tono piatto e inespressivo.
Sembra che la sua storia non gli appartenga, che quello che dice sia privo di
interesse, sia incomprensibile, come estraneo da sé. L’idea che c’è dietro è
che un sogno è una fantasia e per questo è irreale.
Come
primo obiettivo bisogna far sperimentare al paziente che il sogno rappresenta
il suo modo di vivere, che si
manifesta in uno stato di coscienza diverso da quello dello stato di veglia. Bisogna
favorire il contatto con l’esperienza sognata e quindi la prima integrazione
tra il sé paziente e il non sé sogno, attraverso il riconoscimento che il sogno
è la sua stessa esistenza.
Riferirlo
al presente e con più enfasi è la prima consegna ed è probabile che permetta al
soggetto di riscoprire se stesso e aspetti della sua vita, in quell’insieme di
immagini raccontate come un’esperienza estranea. Quando le si fa aggiungere ad
ogni frase del racconto “…e questa è la mia vita!”, il contatto con il suo modo
di vivere è immediato.
Il
riferirlo al presente, con l’attitudine a considerarlo come aspetto della
propria esistenza, permette di riavvicinare le parti alienate del sé e di
ristabilire con esse un contatto non mediato dalla interpretazione del
terapeuta, ma frutto della propria esperienza.
Riportare
il sogno nel “qui e ora”, narrandolo al presente, inoltre, interrompe la
frattura con il passato e ricorda che l’unico tempo che sto vivendo è quello
attuale. Il passato non c’è più e il futuro è soltanto possibile[9].
La ragione profonda è che se vivo consapevolmente la mia esperienza con piena
presenza, non c’è scissione tra sperimentatore ed esperienza vissuta. Sono
pienamente coinvolto o, detto in altro modo, in profondo contatto. In fondo la
nevrosi deriva proprio dalla mancanza di contatto con l’esperienza che vivo. La
mente mi imprigiona con i giudizi, i modelli, gli ideali e mi separo sempre più
dal bisogno reale. Quando sono pienamente immerso nel qui e ora non c’è più
spazio per l’impasse, perché l’unica realtà esistente è quella che sto vivendo,
non c’è una approvazione o una disapprovazione, entrambe provenienti dal
passato sperimentato o dal futuro paventato sotto forma di fantasia
allucinatoria che non mi permette di vivere la realtà del momento.
Un’altra caratteristica del sogno
che è possibile sfruttare per ottenere informazioni sul modo d’essere del
soggetto è il “vissuto d’azione” che esso comporta. Nei sogni, infatti, il non
fare non è dato; un sogno immobile non viene raccontato e quello che
raccontiamo sono sempre azioni con la certezza e la sicurezza che qualunque
cosa sognerò, qualunque sia il mio vissuto d’azione, mi risveglierò nel mio
letto. Questo ci porta ad ipotizzare che
nel sogno è possibile che incontriamo le azioni che
non facciamo nella realtà, le azioni che non compio, quando posso muovermi
realmente, quando ho la possibilità di agire nel mondo esterno. Ovviamente il
sogno non è solo questo, ma può essere interessante tenere conto di questo,
come una possibilità di lavoro sul sogno.
Molto spesso è importante riconoscere in qualche modo l’azione
mancante: l’azione del sogno in che modo ospita quello che non faccio nel
mondo?
Questo ci porta a considerare l’influenza del sogno sul copione di vita, sulle azioni bloccate
e ripetitive. La non azione reale in cui avviene l’evento sogno, permette, all’interno
della relazione terapeutica, di contattare la sua polarità che appare nel sogno
come vissuto di azione in qualche modo interrotta nel mondo reale del cliente.
4.
Al
di là del ricordo
Non limitarti a
ricordare il sogno ma “riportalo in vita”.
Claudio Naranjo
Tutte le diverse parti del sogno sono
frammenti della nostra personalità.
Dato che il nostro scopo è quello di
fare di ognuno di noi una persona sana,
il che significa una persona integrata,
quello che dobbiamo fare è rimettere insieme i
vari frammenti del sogno.
Dobbiamo riappropriarci di queste parti
proiettate e frammentate della nostra personalità,
e
riappropriarci del potenziale nascosto che compare nel sogno.
Perls
Un altro modo più sintetico e creativo per
sperimentare insieme il qui e ora e il messaggio esistenziale del sogno, è
quello usato da Perls di far vivere le parti del sogno drammatizzandole. In
questo caso il sogno viene trattato come esperienza diretta del paziente
piuttosto che interpretato. L’idea portante che Perls utilizza per sviluppare
la sua tecnologia di intervento sul sogno è che esso sia, in ogni sua
componente, l’insieme delle proiezioni delle parti della personalità del
sognatore. Quindi, secondo Perls, è importante che la persona possa entrare in
contatto con le figure del sogno per riconoscere in quale modo gli
appartengono. Il processo di integrazione e crescita personale parte da questa
operazione. Nel far ciò Perls considerava ogni elemento del sogno, ogni
oggetto, persona, animale, sentimento come una proiezione[10] e
considerava il processo terapeutico sul sogno come una riappropriazione ed una
integrazione di queste proiezioni.
La tecnica spesso adottata per favorire questo
processo di riappropriazione delle proiezioni, è quella di invitare il paziente
a ripercorrere il sogno riattualizzandone le vicende nella interpretazione
drammatica.
La
drammatizzazione delle parti del
sogno infatti favorisce il contatto e la reidentificazione con gli aspetti
alienati del sé. Lo scopo ultimo di quest’ultima è di ripristinare il contatto
con la consapevolezza interrotta, per reintegrarne i tre livelli di esperienza:
sensoriale, emotiva e cognitiva che, procedendo dallo sfondo in primo piano,
vengono riacquisiti dalla personalità. Essa inoltre consente di andare oltre le
limitazioni che il soggetto si pone nella sua vita reale e le conseguenti
modalità esistenziali attraverso operazioni di riattualizzazione e l’esplicitazione
delle scelte omesse o possibili.
Il
soggetto che ha prodotto il sogno diviene soggetto/sceneggiatore, oltre che
attore e regista, del copione a cui dà vita nell’interazione con il gruppo e/o
con il terapeuta: inizia con lo scegliere i personaggi e gli oggetti che
rappresenteranno le figure del sogno. Nel gioco delle parti, nell’espressione
più profonda dei ruoli, nel loro mutamento e sviluppo drammatico, lo
svolgimento della rappresentazione rievoca la trama della propria vita (o parte
di essa); il processo svela il tessuto esistenziale agli occhi stessi del
sognatore divenuto attore/osservatore. Il racconto della propria vita coincide
con il destino personale, ma è anche la trama scelta che nella mente diviene
destino: in quanto è l’identificazione con la propria storia che dà vita al
sistema di credenze che orienta le scelte di un individuo e lo àncora a un
carattere.
La drammatizzazione terapeutica parte quindi dalla
analisi, in senso registico, sul testo del sogno: paziente, gruppo e terapeuta,
con i loro diversi ruoli, diventano lo strumento che dà forma e muove il campo
dinamico definito dal soggetto/sceneggiatore. A questo punto infatti, sia nella
situazione di diade terapeutica che in quella di gruppo, il lavoro terapeutico
coincide con il montaggio della azione del sogno. Il terapeuta diviene una
sorta di accompagnatore empatico, che svolge la sua azione maieutica partendo
dal principio che gli elementi del sogno sono definibili soltanto rispetto alla
relazione con l’insieme come, per esempio, le note di una melodia.
L’interpretazione
del terapeuta naturalmente non è del tutto assente, interviene necessariamente
quando dirige il lavoro guidando il paziente. Tra le varie scelte possibili ne
effettuerà una che sarà la sua personale risposta alla esperienza che il
paziente gli offre. È un po’ come disegnare un tracciato lungo il quale
entrambi, paziente e terapeuta, si possano muovere.
La drammatizzazione permette, quindi, di giocare i
propri ruoli e le dimensioni di sé nell’area protetta del setting.
Il
paziente entrando nel “come se” del setting terapeutico inizia ad uscire dalla
situazione di fissità emotiva o di visione della vita in bianco e nero, cioè
senza mezzi toni, per cominciare a rendere fluido il gioco dei sentimenti,
ritrovare la rabbia inespressa nel senso di colpa, la possibilità che amore e
odio possono coesistere, scoprire insomma, l’infinita scala di grigi contenuti
tra il bianco e il nero. Durante questo processo il paziente sviluppa la
fluidità dei sentimenti insieme alla capacità di viverli diventandone consapevole,
mentre sperimenta, realmente e onestamente, le sue emozioni.
Questa
sperimentazione simbolica, nel qui ed ora della terapia, di vissuti
affettivamente reali ai quali possono seguire delle risposte diverse da quelle
consentite dalla situazione originale, ormai passata e immutabile, permette di
ristabilire la maturazione e lo sviluppo di quegli strumenti affettivi e
cognitivi non disponibili al paziente nelle situazioni traumatiche originarie.
Il
passaggio tra l’evento raccontato (ad es. il sogno), che come accennato prima è
ormai fissato nella sua incompletezza — in quanto evento passato — e l’operazione
di riattualizzazione svolta nella seduta psicoterapeutica, permette al paziente
che “interpreta” se stesso, nel copione del sogno da lui sceneggiato, di
chiudere le situazioni inconcluse della sua vita.
Come
diceva Perls “…l’unico pericolo è che il
terapeuta intervenga troppo rapidamente a salvarti, dicendoti quello che
succede, anziché lasciarti la possibilità di scoprirlo da solo”.
Conclusioni
Siamo giunti al termine di questo breve elaborato
che ha avuto come filo conduttore il sogno, nei suoi aspetti che riflettono la
natura psichica del sognante. Abbiamo analizzato sia gli aspetti riguardanti il
lavoro onirico vero e proprio, sia la consapevolezza che abbiamo del sogno nel
nostro stato di veglia. Ci siamo soffermati principalmente sul ricordo che
abbiamo del lavoro onirico e abbiamo provato ad esplicitarne il significato ed
un eventuale utilizzo in ambito terapeutico. Nel far ciò, è risultato più
chiaro che la vita del sogno non è diversa da quella diurna in quanto è frutto
della stessa dinamica psichica che muove il soggetto nel mondo. Forse è proprio
a questo che alludeva Shakespeare quando affermava che noi “siamo fatti della stessa materia con la
quale sono fatti i sogni”.
Bibliografia
· F. PERLS, - R.F. HEFFERLINE - P. GOODMAN, Teoria e pratica della terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma, 1971.
· O. ROSSI, Lavorando sul sogno, in “Psicoterapia della Gestalt contemporanea. Esperienze e strumenti a confronto”, a cura di Maria Menditto, FrancoAngeli, 2011.
· U. GALIMBERTI, Dizionario di psicologia, UTET Libreria, 2006.
· F. PERLS, L’approccio alla Gestalt, Astrolabio, Roma, 1977.
· M. CAVALLO, - F. LEONE, Sogni Lucidi. Il paradosso della coscienza, in “Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n° 30, Roma 1997.
· N. LALLI, Veglia, sonno e sogno, in “Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n° 30, Roma 1997.
· U. PISCICELLI, Sonno, sogno e trance, in “Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n° 30, Roma 1997.
· P. GENTILI, Il sogno in psicoterapia come desiderio e come relazione di aiuto, in “Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria n° 31”, Roma 1997.
· O. ROSSI, Il teatro del sogno come flusso della condotta, in “Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n° 30, Roma 1997 .
· M. JAMES, - D. JONGEWARD, Nati per vincere. Analisi Transazionale con esercizi di Gestalt, Edizioni San Paolo, Milano, 2005.
[1] Nella patologia questa regola viene meno, tanto da ritenere che la sovrapposizione
o l’interferenza tra questi stati, sia un segno patognomonico del
disfunzionamento mentale. Ne citerò due per esemplificare. Da una parte la narcolessia,
la cui genesi è legata alla netta riduzione del tempo che deve intercorrere tra
la fine dello stato di veglia e l’inizio della fase REM: arco di tempo definito
“latenza REM” e che nell’uomo ha una durata media di 70’-80’. Questo passaggio
nella narcolessia avviene invece immediatamente creando i tipici segni del
disturbo: l’incoercibile sonnolenza e la caratteristica atonia muscolare. Dall’altra
le allucinazioni del delirium tremens che sono dovute ad una sovrapposizione
della fase REM nello stato di veglia.
[2] La maggior parte dei sogni è
priva di tonalità cromatiche anche se esistono dubbi in proposito dovuti al
fatto che l’incidenza del colore aumenta in rapporto alla vicinanza temporale
tra il sogno e il suo resoconto. Nei ciechi, inoltre, si hanno sogni visivi
quando la cecità è insorta dopo il sesto-settimo anno di vita, mentre i ciechi
dalla nascita riferiscono sogni in cui sono implicate immagini non visive ma
collegate ad altre modalità sensoriali. Ciò ha fatto pensare che i movimenti
oculari non siano collegati tanto alla visione quanto all’immagine del sogno.
[3]
A
differenza del segno che indirettamente rimanda alla presenza di una realtà
precisa e del segnale che è un indice convenzionale ed esplicito.
[4] Nell’esperienza dei “sogni lucidi” il soggetto invece “sa” che sta
sognando. Questa evenienza può indicare un tentativo di superamento dell’angoscia,
nel senso che se il contenuto del sogno suscita angoscia, pensare che si sta
sognando, è un modo per sdrammatizzarlo.
[5] Secondo Aserinsky e Kleitman (1953) spesso durante il sonno REM si
verificano brevi risvegli e movimenti corporei capaci di frammentare il sogno,
facendo in modo che il ricordo del materiale che precede il risveglio venga
perduto. Maury ritiene invece che il sogno venga addirittura costruito una
frazione prima del risveglio.
In uno studio, Dement e
Kleitman svegliarono cinque soggetti ogni cinque o quindici minuti dopo l’inizio
dei loro periodi REM, e chiesero loro di dire quanto tempo era passato. Quattro
su cinque soggetti riuscirono sempre ad indicare il tempo giusto. Lo stesso
studio mostrò che i sogni riferiti dopo quindici minuti di sonno REM erano più
lunghi di quelli avvenuti dopo cinque minuti. Queste relazioni sembrano contraddire
la nozione di sogni istantanei. Tuttavia non provano che il tempo del sogno sia
identico al "tempo reale", ma indicano solo che in genere i due tempi
sono reciprocamente proporzionali (in LaBerge, 1985, p. 77).
[6]
Il dimenticare il sogno può essere considerato
una tendenza ad alienare dalla consapevolezza le forze “pericolose” che si
affacciano alla coscienza mascherate dietro il linguaggio metaforico del sogno.
Perciò il sogno fugge così rapidamente, oltre alle ben note spiegazioni di tipo
fisiologico sulla memoria a breve e a lungo termine.
Dal
sogno infatti possono emergere immagini di sé che non corrispondono al proprio
Io idealizzato e anche esperienze dolorose del passato coperte dall’adattamento
al proprio modello di vita, che se emergessero porterebbero dolore e
umiliazione. Il sogno contiene i nuclei del proprio copione, e affrontarli
produce sofferenza.
Il
sonno buio e la dimenticanza in esso difendono dal contatto con i sé alienati,
gli affari non compiuti che reclamano attenzione.
Naturalmente
è proprio il conoscere e rivivere il dolore che porterà al suo superamento.
Richiamando alla luce i messaggi nascosti dei nostri sogni li demistifichiamo e
riduciamo le possibilità di farci ferire.
[7] La censura è una funzione dell’apparato
psichico che preclude ai contenuti inconsci inaccettabili e ai loro derivati di
accedere alla coscienza.
La
resistenza si riferisce all’opposizione inconscia ad accedere alle proprie
dinamiche profonde.
[8] Il transfert designa in generale
la condizione emotiva che caratterizza la relazione del paziente nei confronti
dell’analista, e in senso specifico il trasferimento sulla persona dell’analista
delle rappresentazioni inconsce proprie del paziente.
[9] Presentificare il passato o il
futuro, attraverso la fantasia ha precedenti in discipline spirituali più
vecchie della terapia. Naranjo afferma che è alla base della storia del dramma
e del recitare i sogni, come fanno alcuni popoli primitivi.
[10] Perls affermava che per effetto
della proiezione “abbiamo disconosciuto, alienato certe parti di noi stessi e
le abbiamo messe nel mondo, fuori di noi, piuttosto che averle disponibili come
proprio potenziale”. La conseguenza è che viviamo scissi e frantumati: l’obiettivo
della terapia è di facilitare la reintegrazione.