A cura di Matteo Simone, psicologo e psicoterapeuta Gestalt ed EMDR. Responsabile Nazionale Sezione Sport Corpo Italiano di Soccorso Ordine di Malta (CISOM). Atleta e dirigente dell’ASD Atletica La Sbarra. Triatleta di Podistica Solidarietà. 21163@tiscali.it - 3804337230
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giovedì 5 dicembre 2013
.: Europei di cross con l'Esercito in prima linea
.: Europei di cross con l'Esercito in prima linea: Daniele Meucci Roma. Domenica 8 dicembre a Belgrado, in Serbia, si svolgerà il campionato europeo di cross, e tra i 36 azzurri sel...
mercoledì 4 dicembre 2013
Per una relazione autentica: uno sguardo alla determinazione ontologica dell’uomo.
Si chiami homo perché è fatto di humus (Terra)
M. Heidegger
“La Cura mentre stava
attraversando un fiume, scorse dal fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un
po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia
fatto, interviene Giove. La Cura lo prega di infondere lo spirito a ciò che
essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la Cura pretese
imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che
fosse imposto il proprio. Mentre la Cura e Giove disputavano sul nome,
intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse
imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo.
I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la
seguente giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento
della morte riceverai lo spirito. Tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il
corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che
esso viva lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si
chiami homo perché è fatto di humus (Terra)”[1].
In questa fabula, che Heidegger riporta in Essere e Tempo, l’uomo è forgiato dalla
Cura e ad essa appartiene per il tempo della sua vita. In tale senso la Cura
non è intesa come un atto o una serie di atti ma l’essenza
dell’essere-nel-mondo dell’uomo, dell’Esserci. Essa ha “un’apriorità
esistenziale” per cui viene prima degli atti di cura: si situa prima di ogni
comportamento e di ogni situazione in cui l’Esserci si trova[2].
La Cura è un esistenziale, e in quanto tale definisce l’umanità
dell’uomo. Senza Cura, non vi è umanità. Dal suo primo sguardo sul mondo,
ciascuno si trova nella condizione esistenziale di appartenere alla Cura. Se
noi siamo plasmati dalla Cura, se siamo esistenzialmente Cura, non possiamo
certamente dipendere dagli atti di cura[3].
Dunque il tentativo di Cura fallisce a priori dato che qui
non lo intendiamo come atto, ma come un esistenziale. La rivelazione
dell’Esserci come Cura implica che l’Esser-ci in quanto con-esserci si rapporta
al mondo secondo le determinazioni del prendersi
cura e dell’aver cura. L’aver cura è “l’incontro (autentico) col
con-esserci degli altri nel mondo”, distinto dal prendersi cura inteso come l’esser
presso le cose, che riduce l’altro a un “utilizzabile”, lo sottopone secondo
Levinas a uno “sguardo totalizzante”, molto più semplicemente, non lo rende una
“cosa” come afferma Buber[4].
Se io ho cura di
me e ho cura di aver cura di me,
allora mi “pre-occupo”[5] dei
miei comportamenti e di tutte le situazioni in cui vengo a trovarmi. Ancora se ho
cura di me e degli altri allora considero me, iscrivo me e allo stesso modo gli
altri di cui ho cura nella molteplicità delle possibilità dei modi di essere
dell’esserci. La dimensione dell’aver
cura schiude quindi l’esistenza dei singoli membri, ne definisce il poter-essere,
ossia la progettualità esistenziale. Nel momento in cui mi prendo cura sto inevitabilmente facendo riferimento ad un
oggetto, quindi prendendomi cura di
una persona ne sto negando l’esistenza.
“La vita dell’essere umano […] non consiste soltanto in
attività che hanno un qualcosa per oggetto. Percepisco qualcosa. Provo
qualcosa. Mi rappresento qualcosa. Voglio qualcosa. Sento qualcosa. Penso
qualcosa. […] cose di questo genere insieme, fondano il regno dell’esso. Ma il
regno del tu ha un altro fondamento. Chi dice tu non ha alcun qualcosa per
oggetto. Poiché dove è qualcosa, è un altro qualcosa; ogni esso confina con un
altro esso; l’esso è tale, solo quando confina con un altro. Ma dove si dice
tu, non c’è alcun qualcosa. Il tu non confina. Chi dice tu non ha alcun
qualcosa, ma sta nella relazione”[6].
Aver chiaro questo, come professionisti psicoteraputi, è uno
degli aspetti indiscutibili della terapia col paziente. Se io ho cura del
paziente, si schiuderanno di fronte una ampia gamma di possibilità dei modi di
essere di quella persona e questo permetterà
di guardare più chiaramente nella sua progettualità. Questa essenziale e
sostanziale distinzione tra aver cura
e prendersi cura potrebbe evitare
molte delle controversie e di quelle ambiguità di cui spesso risultano vittima
nostre relazioni.
La cura, il rispetto, l’amicizia, l’amore dovrebbero essere
rappresentanti di legami saldi, e pure le istituzioni pubbliche dovrebbero
poggiare su un rapporto di fiducia sociale schivo di qualsiasi forma di
conflitto di interesse. Invece proprio le istituzioni sembrano fondarsi sulla
competizione e la brama di dominare gli uni sugli altri e tutto questo genera
spiacevoli incombenze. Infatti come osserva Virginia Held, si tende a
considerare innovativo soltanto ciò che ha a che fare con il governo e la
produzione. Invece, se si riuscisse a guardare alla convivenza umana, alla luce
di quanto detto, potremmo riconoscere una nuova centralità, quella del rapporto
fra la persona capace di cura materna e il bambino che, molto più della
competizione e del dominio sugli altri, è relazione dell’orizzonte
specificamente umano[7].
Infatti aver cura dell’esistenza porta con sé un desiderio
di trascendenza, di oltrepassare una situazione data per porsi di fronte al
possibile, a ciò che autenticamente rappresenta il proprio poter essere; aver
cura è, in questa prospettiva, “farsi soggetti capaci di generare mondi[8]”. La
componente generativa dell’aver cura è evidente nella matrice etica della cura
materna, che non si limita a far nascere biologicamente il figlio, ma lo fa
nascere in quanto soggetto, portatore di possibilità di esistenza che vanno tutelate e promosse[9].
L’agire materno “sufficientemente adeguato” rappresenta un
vero e proprio versante di riflessione sull’etica pubblica, nella misura in cui
questa si muove nella direzione di promuovere la vita e le possibilità di chi
viene al mondo[10].
È risultato sostanziale tenere presente questa differenza
nella terapia con i pazienti, tuttavia questo è solo uno degli aspetti da
tenere in considerazione nella relazione terapeutica. Sono specializzata in
psicoterapia ad indirizzo antropologico trasformazionale. Tale orientamento
individua un inedito dispositivo di cura: il soggetto collettivo curante. La
caratteristica specifica di quest’approccio, che discende dal lavoro di pratica
sociale e di ricerca clinica di psicologi e di psichiatri all’interno dei
servizi di salute mentale, sta nell’utilizzo di una “terapeuticità” diffusa,
collettiva, transindividuale. Sicuramente è importante non essere l’unico
titolare della “terapeuticità” del processo di cura, nel senso di una
collaborazione tra altre figure professionali. Ma indubbiamente questo non
basta. Colgo con piacere l’invito di G. Buonaiuto rispetto ad una
sensibilizzazione tra vari detentori del sapere[11].
Credo fermamente che bisogna essere inclini alla pluralità,
anziché solidificarsi e dogmatizzarsi in un sistema di dottrine; bisogna lasciare
ampi margini per ulteriori sviluppi e per un costante arricchimento, perché
solo con feconde contaminazioni possiamo riuscire umilmente ad essere autentici
professionisti. Non si smette mai di formarsi, di apprendere, di confrontarsi:
la mia esperienza mi insegna che con una forte indipendenza e creatività si
possono elaborare efficienti prospettive. Si ricordi che nemmeno i più stretti
allievi, collaboratori e assistenti di Husserl, come Edith Stein o Eugen Fink,
addirittura Martin Heidegger, possono essere definiti husserliani[12].
[1] M.
Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1976.
[2] Ibidem.
[3] Questa è la condizione in cui viene a trovarsi il neonato
che dipende dagli atti di cura della madre.
[4] M.
Buber, Il principio dialogico e altri saggi, Milano, San Paolo, 1993, p. 27.
[5] Uno dei
significati originari di cura è proprio
quello di pre-occupazione spiega M. Conte, ne “La cura come esistenziale
pedagogico”, in Encyclopaideia, 2001.
[6] Ibidem,
p. 60.
[7] V. Held,
Etica femminista. Trasformazioni della coscienza e famiglia post-patriarcale, Milano,
Feltrinelli, 1997.
[8] L.
Mortari, aver cura della vita della mente, Firenze, La nuova Italia, 2002.
[9] Ibidem
[10] H.
Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica,
Torino, Einaudi, 1990.
[11] G.
Buonaiuto, Il contratto in terapia. Guida pratica per il
primo approccio con il paziente”, Milano, Ferrari Sinibaldi, 2013.
[12] Per chi
vuole approfondire legga Storia della fenomenologia, Antonio Cimino e Vincenzo
Costa, Roma, Carocci, 2012.
venerdì 8 novembre 2013
mercoledì 6 novembre 2013
Psicologia dello sport per la perfomance sportiva
L’autoefficacia è la convinzione
della propria capacità di fare una certa cosa, o in altre parole, di
raggiungere un certo livello di prestazione. L’autoefficacia viene definita
dallo psicologo Albert Bandura come “la fiducia che una persona ripone nella
propria capacità di affrontare un compito specifico”.
Importanti dati di ricerca
sottolineano come le persone con forti convinzioni di autoefficacia sono sicure
di potersi esprimere al meglio delle proprie potenzialità, hanno aspirazioni
ambiziose, si impegnano nelle attività che fanno e si riprendono rapidamente
dagli insuccessi; tutti questi sono elementi importanti per una prestazione di
successo.
L’autoefficacia per un certo compito
è resistente quando una persona resta convinta delle sue capacità anche di
fronte a insuccessi e difficoltà di vari tipo; non lo è invece quando
difficoltà e insuccessi portano a sentirsi meno capaci.
La persona che avrà sviluppato un
forte senso d’autoefficacia sceglie obiettivi più elevati, è più motivata, usa
le proprie capacità con maggiore efficienza, è meno ansiosa, gestisce meglio i
fallimenti, è più tenace e ottiene risultati più soddisfacenti di chi invece ha
una percezione negativa delle proprie possibilità.
Il segreto per mantenersi in salute
L’attività fisica fa bene alle
persone di ogni età: nei bambini promuove uno sviluppo fisico armonico e favorisce
la socializzazione, mentre negli adulti diminuisce il rischio di malattie
croniche e migliora la salute mentale. Non è mai troppo tardi per iniziare con
l’attività fisica. Per gli anziani, i benefici riguardano l’autonomia
funzionale, la diminuzione del rischio di cadute e di fratture e la protezione
dalle malattie correlate all’invecchiamento. (1)
L' Organizzazione Mondiale della Sanità ha
pubblicato le “Global recommendations on physical activity for health”. Questo
documento indica i livelli di attività fisica raccomandati per la salute nelle
fasce d'età 5-17 anni, 18-64 anni e over65. Le raccomandazioni sono orientate
alla prevenzione primaria delle malattie cardiorespiratorie, metaboliche,
muscolo-scheletriche, tumorali e dei disturbi depressivi.
Quattro
ore di sport a settimana sono il segreto per mantenersi in salute secondo le
raccomandazioni dell'Istituto Superiore di Sanità emanate nell'ambito del
programma "Guadagnare Salute" sulla linea delle Global recommendations
on physical activity for health redatte dall'OMS.
La forte determinazione nella vita e nello sport Modello O.R.A.: Obiettivi, Risorse, Autoefficacia con Gestalt Therapy, E.M.D.R. ed Ipnosi Eriksoniana
-
1^ fase lavoro nel presente, fase
contemplativa, dell’autoconsapevolezza, dell’aggancio, della sensibilizzazione.
Modello R.O.S.A.: Respiro,
Osservazione,Sensazioni, Autoconsapevolezza (Fase contemplativa) (per stare
bene) attraverso Meditazione, Psicoeducazione, Gestalt Therapy ed Ipnosi
Eriksoniana.
-
2^ fase lavoro con presente, passato,
futuro. Fase della stabilizzazione, dell’azione, mantenimento, dell’uscita dal
problema, disagio, difficoltà, attraverso l’autoconsapevolezza e la
rielaborazione, desensibilizzazione informazioni legate ad antichi o peggiori
episodi, eventi, immagini e lavoro su futuro, obiettivi imminenti.
Modello O.R.A.: Obiettivi, Risorse, Autoefficacia
(Fase dell’azione) (per eccellere) attraverso E.M.D.R., Gestalt, ipnosi
Eriksoniana (lavoro sul presente, passato, futuro).
Ricerca, installazione, potenziamento delle risorse
facendo focalizzare sull’obiettivo imminente e considerando le risorse
occorrenti, le precedenti situazioni dove si sono sperimentate, immaginare
l’obiettivo da raggiungere legato alle risorse occorrenti, insomma un
lavoro sull’incremento dell’autoefficacia con l’aiuto dell’EMDR.
Cambiano motivazioni ed obiettivi ma campioni si può rimanere
Si inizia a praticare sport per scelta, per caso,
per riabilitazione, invogliati da genitori, da istruttori di educazione fisica,
si inizia con una motivazione intrinseca, ludica, per il gusto di giocare, di
divertirsi, per apprendere delle abilità da piccoli per poi incontrare lo sport
da calzare, dove si è portati, dove si è visti potenziali vincenti e quindi si
inizia ad investire tempo e soldi nello sport ma bisogna sempre essere
consapevoli delle proprie sensazioni, dei propri bisogni, esigenze, bisogna
sempre monitorare le proprie motivazioni, calibrare i propri obiettivi e
decidere volta per volta cosa è meglio per se stessi, continuare la strada da
campione o investire in altro, studio, lavoro, apprendere un arte o mestiere in
cui credere. Ecco alcune testimonianze di alcuni campioni rispetto alle loro
motivazioni ed obiettivi.
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