Psicologo,
Psicoterapeuta
A
volte la fatica rende felici, è quello che sperimentano molti atleti di sport
di endurance come gli ultramaratoneti e i triatleti ironman, l’ho sperimentato
anch’io soprattutto nella gara più bella della mia vita l’Iron elbaman.
Interessante quello che scriver Murakami nel suo libro l’arte di correre: “Ciò
che soprattutto mi ha reso felice, oggi, è il fatto che questa gara me la sono
proprio goduta. Non ho ottenuto un tempo di cui andar fiero. Ho anche commesso
diversi piccoli errori. Però ho corso fino a esaurimento delle forze, e ne
risento ancora l’effetto. Inoltre, sotto molti punti di vista, credo di essere
migliorato rispetto all’ultima gara. E questo è un punto essenziale. Perché la
difficoltà del triathlon consiste nel saper combinare le tre prove, e
l’esperienza ha molto da insegnare al riguardo. Permette di compensare lo
squilibrio delle attitudini fisiche. In altre parole, imparare dall’esperienza
è la cosa più piacevole, più divertente del triathlon.”
La
bellezza dello sport è che ti permette di fare esperienza, di metterti in
gioco, di apprendere dall’esperienza sbagliando e facendo sempre meglio la
prossima volta.
Ancora
continua Murakami: “Naturalmente è stata dura, a un certo punto stavo quasi per
perdermi d’animo. Ma in questo sport la fatica è data per scontata. Se non
fosse parte integrante del triathlon o della maratona, chi mai si darebbe la
pena di mettersi alla prova in discipline che succhiano le nostre energie e il
nostro tempo? Proprio nello sforzo enorme e coraggioso di vincere la fatica
riusciamo a provare, almeno per un instante, la sensazione autentica di vivere.
Raggiungiamo la consapevolezza che la qualità della vivere non si trova in
valori misurabili in voti, numeri e gradi, ma è insita nell’azione stessa, vi
scorre dentro.”
Praticando
lo sport intensamente ti senti veramente ed intensamente vivo, senti il sangue
che scorre, il respiro affannoso, il cuore che batte. E le sfide sono sempre
più cercate, la voglia di vedere se riesco ad arrivare entro il tempo massimo,
la voglia di indossare la maglia da finisher, di completare la gara nonostante
le difficoltà ritenute estreme.
Ancora
continua Murakami: “Dopo una bella gara ce ne torniamo ognuno alla propria
casa, ognuno alla propria vita quotidiana. E in vista della prossima gara di
nuovo ci alleneremo in silenzio, come abbiamo fatto fino a oggi, probabilmente ognuno
in un posto diverso. Visto dall’esterno – o piuttosto giudicato dall’alto – il
nostro modo di vivere apparirà forse insulso, privo di fondamenta e di
significato. Penso che sia una cosa alla quale dobbiamo rassegnarci.”
C’è
una sorta di alternanza tra un periodo più o meno lungo di allenamenti ed il
giorno della gara per testare lo stato di forma dell’atleta, una messa alla
prova, arriva il giorno della verità dove l’atleta deve compiere una
successione di gesti atletici che lo permettono di arrivare al traguardo in
salute. Ed ogni volta apprende sempre qualcosa di più, rivede alcuni atleti
diventati amici, si confronta con loro sulla loro forma, sui metodi di
allenamento, sulle modalità di integrazione alimentare, sull’abbigliamento
sportivo tecnico, su eventuali libri in commercio sulla preparazione fisica o
mentale.
Questo
è il fantastico mondo dello sport di endurance, sperimentare e mettersi in
gioco, momento per momento superando momenti più o meno difficili o bui, uscendo
ogni volta da gallerie e tunnel, scoprendo una nuova luce, e tornando ogni
volta al mondo con qualcosa in più, più arricchiti soprattutto nella mente e nel
cuore.
Riporto
di seguito una testimonianza descritta nel testo Disciplinaliquida
di Franco Del Campo, campione di nuoto, due finali alle Olimpiadi di
Città del Messico (1968): “Partecipare ai Giochi Olimpici e magari raggiungere
– anche se da ultimo – due finali, è il sogno supremo di chiunque faccia sport.
Ma, per arrivare alla fine di questa lunga marcia, bisogna iniziare con un
numero infinito di passi intermedi, di allenamenti, di gare piccole piccole,
qualche volta vinte e più spesso perse (diffidare di quelli che vincono subito,
troppo spesso e troppo facilmente: non riusciranno ad imparare dall’esperienza
e a superare il prezioso stress formativo della sconfitta). Poi arrivano,
lentamente, le gare più importanti, prima regionali e poi nazionali. E non ci
sono scorciatoie. Ma a questo punto devi aver superato una certa selezione,
basata – certo – sui tempi e sui risultati, ma soprattutto trascinata dalla determinazione,
dalla testardaggine, dalla caparbia volontà di tener duro, anche se avresti
voglia di fare altro.”
L’atleta
può considerare il non raggiungimento di un obiettivo prefissato come una
sconfitta personale. Ma nello sport si mettono in conto le sconfitte, servono a
farti fermare, riflettere, fare il punto della situazione, osservare, valutare,
capire cosa c’è stato di utile, di importante nella prestazione eseguita e su
cosa, invece, bisogna lavorare, cosa si può migliorare. Quindi, tutto sommato,
la sconfitta potrebbe servire per fare una valutazione delle proprie risorse,
punti di forza e, al contempo, delle criticità.
E’
importante lavorare su obiettivi, sul superare errori e sconfitte, si impara da
tutto ciò che succede per fare meglio in futuro e funzionare meglio come
individui e come squadra conoscendosi meglio.
Ci
si mette a tavolino, e si esamina al dettaglio quello che è successo, come
possiamo far meglio la prossima volta, sono tante le modalità per far meglio.
Matteo SIMONE