Sono solamente un buon dilettante che non riesce a
smettere di sognare in grande
Matteo SIMONE
Essere ultramaratoneti significa essere
pronti a tutto, a fare tanti chilometri di corsa, a faticare tanto con il corpo
e con la mente, a raggiungere obiettivi difficili e sfidanti, a progettare
sfide da portare a termine.
Quando c’è un problema si sa che bisogna
organizzarsi e cambiare piani e programmi provvisoriamente e riorganizzarsi. In
questo periodo di confinamento tanti si sono fermati o organizzati per fare qualcosa
di diverso ma sempre stimolante. E’ interessante l’esperienza di Stefano
Romano, atleta della nazionale ultramaratoneti.
Come
hai gestito il periodo del COVID? “Inizialmente ho cercato di continuare a correre, nonostante i divieti
diventassero sempre più stringenti. Ho sempre corso da solo, quindi non avevo
grossi problemi, a parte gli allenamenti collettivi del mercoledì che avevo
appena iniziato, dove comunque alla fine eseguivo le ripetute sempre in
solitaria. Torino è grande e andavo in collina, a volte uscivo dalla città e a
volte mi incrociavo con altri ultramaratoneti giusto per fare due chiacchiere mantenendo
le distanze, d'altronde non ho mai corso a distanze inferiori al metro, credo
con nessuno. Poi quando gli scenari sono cambiati e si poteva sgambettare
cricetando ho provato a girare la questione. La sfida adesso era opposta:
adesso non dovevo più correre. Ho sempre avuto necessità di spazio, strade
lunghe, ampie, salite, orizzonti diversi e non dell'isolato sotto casa, del
tapis-roulant o di qualche altro surrogato. Non pensavo, in tutta sincerità, di
reggere botta così bene. Ne è venuta fuori una convivenza non programmata, una
grande serenità interiore e la convinzione di ritornare meglio di prima. È
bello anche ricostruire da capo, non so se ne avessi realmente bisogno,
difficile dirlo. Ma a volte è la vita a metterti davanti a delle sfide che
nemmeno immaginavi”.