lunedì 12 dicembre 2022

Marco Marchei: La maratona mi ha portato a correre due Olimpiadi

 Il mio primo sogno è stato quello di vestire la maglia azzurra 
Matteo SIMONE 
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Marco Marchei con Gianni Poli
Mondiali Helsinki 1979
(Ho siglato il mio primato in
maratona di 2h11'47)

Marco Marchei (classe ’54), ex maratoneta e mezzofondista italiano. Nel 1978 si classifica 4º alla Maratona di New York in 2h16'54". 

Nel 1979 si classifica all'Universiade di Città del Messico correndo i 10000 m in 31'54"9 e ai Giochi del Mediterraneo di Spalato, conquista la medaglia d'argento nella maratona sulla distanza non standard di 41,3 km con il tempo di 2h07'15". 

Nel 1977, a 23 anni, partecipa ai Mondiali di corsa campestre di Düsseldorf, nel 1980 partecipa ai Mondiali di cross a Parigi. Vincitore della Roma-Ostia nel 1979 e 1980.  

Nel 1980 conquista l’Argento alla Maratona di Boston in 2h13'20". Nel 1982 corre la maratona ai Giochi olimpici di Mosca. 

Nel 1983 corre la maratona ai Mondiali di Helsinki classificandosi 13º in 2h11'47", suo record personale. Nel 1983 si classifica 4º in Coppa Europa di maratona (Spagna - Laredo) in 2h12'49" e conquista l’Argento a squadre. 

Nel 1984 corre la maratona ai Giochi olimpici di Los Angeles. 
Di seguito, approfondiamo la conoscenza di Marco attraverso risposte ad alcune mie domande. 
Come hai scoperto il tuo sport? Causalmente e per reazione. A mio padre fu chiesto di organizzare una corsa campestre di carattere regionale nel paesino del centro Italia in cui vivevamo. Coinvolse, e per l’occasione fece tesserare, praticamente tutti i miei compagni di scuola - eravamo in seconda media - meno me, per il timore che sfigurassi, soprattutto nei confronti di alcuni coetanei piuttosto dotati fisicamente. Il caso volle che una terza persona riuscisse a “recuperarmi”, tesserandomi in extremis. Finì che in quella gara mi piazzai benissimo per essere un esordiente (settimo in ambito regionale), risultando il migliore dei miei compaesani. Continuai poi a praticare la corsa (l’atletica leggera), che non ho più lasciato, per la società sportiva del capoluogo per cui ero stato tesserato. 
Marco Marchei n° 431
maratona olimpica Mosca 1980
Cosa e/o chi ti ha aiutato/agevolato e/o ostacolato? La persona che, del tutto casualmente, aveva contribuito al mio primo tesseramento per una società di atletica, era un atleta top che in carriera ha partecipato anche a un’Olimpiade nella maratona. Mi ha sempre “tenuto d’occhio” e da quei Giochi spedì a mio padre una lettera su carta intestata con i cinque cerchi, in cui gli raccomandava di agevolare sempre la mia passione per la corsa perché si potevano raggiungere obiettivi ambiziosi, proprio come era accaduto a lui. La cosa fu ovviamente di grande ispirazione per me. In seguito il suo parere è stato fondamentale per il mio ingresso in un gruppo sportivo militare, dove ho avuto l’opportunità di crescere atleticamente e cominciare la scalata ai vertici della mia specialità, la maratona, che mi ha portato a correre a mia volta due Olimpiadi. L’incoraggiamento e il supporto di Antonio Brutti, quell’atleta a cui avevo ispirato simpatia e che aveva creduto in me, è stato fondamentale per la mia carriera. 

Questa è una bella, utile e interessante testimonianza e storia di vita e sport. I genitori come fanno sbagliano, non sanno mai come comportarsi al meglio per cercare di trovare la strada migliore per i propri figli, per proteggerli da sconfitte, per agevolarli in una carriera scolastica e/o lavorativa. Ma a volte ci pensano amici, persone incontrate per caso a trovare sentieri e strade alternative individuando in un ragazzo caratteristiche, risorse, qualità, talento da poter esprimere al meglio. 

Marco Marchei, maratona di Boston 1980
(In fuga con il greco Michail Koussis)
Antonio Brutti (classe ‘45) ha partecipato alle Olimpiadi di Monaco di Baviera nel 1972. È stato primatista italiano nella maratona con il tempo di 2.17'21" ottenuto nel 1972. 
La gara della tua vita dove hai sperimentato le emozioni più belle? La maratona di Boston 1980, dove sono stato protagonista per metà gara, in fuga con un altro atleta, in una cornice di pubblico incomparabile, finendo poi al secondo posto, ampiamente col mio primato personale. Di quella gara, che avevo studiato per bene, ricordo tutto, metro dopo metro, così come la partecipazione e il supporto del foltissimo pubblico. Di altre occasioni, invece, ho quasi dimenticato tutto il “vissuto”, sensazioni comprese. Il risultato di Boston mi aprì di fatto la partecipazione all’Olimpiade di Mosca ‘80. 
Cosa ti è mancato per la vittoria nelle gare dove sei arrivato secondo? Sono stato un atleta sempre molto strutturato, ligio al rispetto degli allenamenti e della loro programmazione. Questo mi ha sempre fatto pensare che le vittorie perse fossero dovute più al maggior valore degli avversari che a miei deficit. Non escludo comunque che in qualche caso – ma in competizioni meno importanti – ci sia stato qualche calo di tensione. 

Premiazione maratona Boston 1980
Marco Marchei con il vincitore Bill Rodgers
e la fasulla vincitrice Rosie Ruiz
(poi squalificata per taglio di percorso) 
Boston risulta essere una gara molto prestigiosa e ogni gara è un test, un risultato, una performance ma anche l’apertura di nuovi orizzonti, a scoperta di nuove consapevolezze e per Marco l’accesso alle olimpiadi. 
Cosa hai scoperto di te stesso praticando sport? Grazie allo sport ho potuto vincere le prime timidezze che mi derivavano dalla provenienza da un piccolo borgo. Anche solo recarmi in altri paesi della provincia – ma successivamente della regione e, infine, di altre regioni – mi rese in poco tempo più disinvolto e in generale molto meno timoroso. La pratica della corsa, da parte sua, mi ha fatto scoprire precocemente lati del mio carattere che ancora non conoscevo. Come quella che allora chiamavo grinta e che poi, più correttamente, ho definito determinazione; o come la capacità organizzativa necessaria per coniugare al meglio i tempi per gli allenamenti e le gare con quelli della vita quotidiana; o, ancora, l’ambizione, “requisito” a mio parere indispensabile per procedere nell’attività sportiva di alto livello. Per ultima, ho scoperto di avere una grande resistenza alla fatica fisica e alle tensioni: una doppia qualità che in ambito lavorativo mi è poi servita moltissimo. 

 

E’ risputo che lo sport risulta essere una palestra di vita, fa conoscere molto meglio se stessi, soprattutto quando si esce fuori la zona di confort e bisogna mettersi in gioco contro altri avversari
. Si tratta di organizzarsi per pianificare e programmare allenamenti e gare per esprimersi al meglio e per cercare di eccellere.
 
Hai sperimentato l'esperienza del limite nelle tue gare? Indubbiamente sì, soprattutto in quelle 3-4 occasioni in cui la maratona, gara estenuante per definizione, mi ha presentato il conto. La sensazione di aver esaurito le energie ma di dover comunque andare avanti è una delle peggiori mai provate.  

Da sempre la maratona è ritenuta una gara estrema che mette a dura prova, dove c’è la possibilità di incontrare il cosiddetto muro dopo il 30° km e bisogna sapersi gestire per andare avanti nonostante tutto. 
La tua gara più estrema o più difficile?
I 10.000 metri alle Universiadi di Città del Messico nel 1979. Convocato dalla Federazione di Atletica, sono rimasto per oltre un mese in Messico con altri 9 fondisti e 2 marciatori per sperimentare la preparazione in altura in condizioni estreme, dormendo a 4.000 metri di altitudine (in un rifugio sul vulcano Popocatepetl) e allenandomi ai 2.300 metri della Capitale. Vuoi perché stanco per i lavori impegnativi proposti, vuoi per le difficili condizioni derivanti dall’altura, quando venni selezionato per coprire la gara dei 10.000 alle Universiadi che erano in corso di svolgimento, reagii di fatto con controprestazione, chiudendo la gara in un tempo di oltre 2 minuti e mezzo superiore al mio primato personale sulla distanza. Ricordo che per terminare la prova detti veramente tutto quello che avevo.   

Davvero un’esperienza estenuante, forte ma ricca di sensazioni ed emozioni, considerando anche la giovane età di 23 anni e la responsabilità di rappresentare la nazione Italia. 
Un tuo messaggio rivolto ai ragazzi per avvicinarli allo sport?
Oggi, per quanto si dica, sono davvero pochi i ragazzi che non pratichino un qualche sport, cominciando molto più presto di una volta. Si viene avviati sin da giovanissimi alla scuola calcio, al minibasket, al minivolley, al pattinaggio su ghiaccio, alla ginnastica, alla scherma, perfino al ciclismo o ai corsi di nuoto per neonati. I veri animatori sono ormai i genitori, divisi tra quelli che sognano figli campioni e quelli per i quali i campi, i palazzetti, le palestre e le piscine sono perfetti parcheggi per alcune ore dei loro pargoli. Credo pertanto che il problema non sia tanto quello di avvicinare i ragazzi allo sport, quanto quello di far sì che continuino a praticarlo e non lo abbandonino quando diventa troppo poco gratificante rispetto alle attese degli adulti (genitori, allenatori o dirigenti). Ai miei figli ho sempre detto di praticare lo sport che preferivano, o per il quale avevano la migliore attitudine, coltivando la loro passione e badando sempre a divertirsi, quale che fosse l’impegno. Non tutti nascono campioni e non si deve essere costretti a rincorrere sogni impossibili, ma un sogno, almeno uno, bisogna averlo e va perseguito con la tenacia e la costanza nella pratica. Come dice un caro amico, «lo sport è una palestra di vita, dove le cose si conquistano con il piacere della fatica e la forza dei sogni; non è vero che sognare è tempo perso, bisogna sempre credere in ciò che ci appassiona e provare ad arrivarci spendendo tutto, senza cercare scorciatoie».   

In effetti prima si viveva più in strada e c’erano meno possibilità di fare sport in modo organizzato e strutturato, ora i ragazzi possono scegliere e provare lo sport che vogliono e i genitori sono più propensi a coinvolgerli e spendere tempo e soldi per avvicinarli a ogni sorta di sport. Complimenti anche alla figlia Valentina Marchei che ha intrapreso una carriera sportiva di pattinatrice artistica su ghiaccio che l’ha portata a partecipante ai Giochi olimpici invernali di Soči 2014 e Pyeongchang 2018. 
Marco Marchei con Emil Zatopek Bruxelles 1979 dopo la vittoria maratona di Coppa Europa
I sogni, le sfide, le motivazioni, le passioni sono i motori principali che spingono le persone a impegnarsi e credere di potercela fare, di poter arrivare dove prefissato con sudore, sacrifici.
Sogni realizzati e/o incompiuti? Il mio primo sogno è stato quello di vestire la maglia azzurra. Quasi riuscito a 18 anni con la convocazione in un incontro di Nazionale giovanile, raggiunto a 23 anni con la partecipazione con la rappresentativa italiana maggiore ai Campionati mondiali di corsa campestre. Il secondo sogno era quello di partecipare a un’Olimpiade ed è stato centrato due volte. Ho invece fallito quello della conquista di un titolo italiano: impossibile da centrare finché ho gareggiato in pista, dove, benché ad alti livelli, ero però sempre “chiuso” da grandi specialisti, dai 3.000 siepi ai 5.000 e 10.000 metri. Per motivi diversi ho partecipato a un solo campionato italiano di maratona, nel quale però sono finito secondo.
Un altro rimpianto è quello di non essere riuscito a fare un vero acuto: nel 1979 ho vinto a Bruxelles l’edizione zero della Coppa Europa di maratona, quando ancora la manifestazione, benché qualificata, non aveva ancora raggiunto la credibilità odierna, poi l’anno successivo ho sfiorato il successo alla maratona di Boston. Vincerla sarebbe stata un’impresa storica: è riuscita 10 anni dopo a Gelindo Bordin. 

Una grandissima carriera sportiva per Marco, grandi risultati indossando la maglia azzurra e partecipando a due olimpiadi in un periodo dove in Italia c’erano i campionissimi dell’atletica di livello internazionale, un periodo d’oro per l’atletica, tutti campioni.
 
Gli ingredienti del tuo successo? La volontà di uscire, grazie allo sport, da certo provincialismo; una buona dose di ambizione; il desiderio di esplorare distanze nuove e di viaggiare, senza paura, alla scoperta di nuovi mondi e nuovi modi di affrontare la corsa (sono stato il primo italiano, nel 1978, a volare a New York dove ho esordito sulla distanza della maratona, finendo al quarto posto e dando il via, di fatto, a un fenomeno come quello delle trasferte legate a quella gara iconica); il rispetto incondizionato di tutte le persone che mi hanno dato supporto nel corso dell’intera carriera, ma soprattutto, degli avversari che ho incontrato. 

Dietro i successi personali, c’è tanta roba, il mettersi in gioco, l’uscire fuori dalla zona di confort, sperimentarsi in luoghi anche ontani e sconosciuti, ottima palestra di vita. 
Cosa consigli ad atleti e allenatori? Difficile dare una risposta univoca e soprattutto rifacendomi a una concezione di sport come quella di oggi così diversa da quella dei tempi in cui ero un atleta. La vita quotidiana è completamente cambiata, per molti versi decisamente migliorata in ogni campo grazie alle nuove tecnologie che rendono più facile qualsiasi attività, ma per altri diventata molto più “piena” e forse più complicata da affrontare. Agli atleti, anche ai più impegnati, consiglio di gestire al meglio il loro tempo facendo scelte oculate e senza dimenticarsi del loro futuro, che non è garantito per tutti e a fine carriera presenterà inevitabilmente il conto. Agli allenatori consiglio di tenersi sempre aggiornati, perché lo sport odierno è diventato sempre più tecnico. In particolare suggerisco di approfondire la gestione psicologica degli atleti: il miglior allenatore è, a mio parere, il buon tecnico capace di rapportarsi il più empaticamente possibile con i suoi allievi. 

Utilissima testimonianza di un ex atleta che ha vissuto epoche diverse di storia, vita, sport. Ora è importante trovare un sano equilibrio tra sport, lavoro, relazioni e gli allenatori devono essere molto sensibili e preparati per gestire anche questi aspetti, individualizzare tabelle di allenamento per ogni individuo con caratteristiche fisiche e psichiche diverse l’un dall’altro, tanta presenza e gestione di aspetti emotivi dell’atleta. 
Marco Marchei con Franco Fava
RomaOstia 1980
Ti ispiravi a qualcuno? Sì: un atleta di un paio d’anni più grande, del quale mi piaceva l’atteggiamento a suo modo rivoluzionario, almeno per i tempi in cui primeggiava in Italia, con cui viveva il mondo della corsa. Al di là dell’approccio impavido con cui affrontava ogni gara, mi ispirava per le sue attività extrasportive: viaggiava frequentemente all’estero, parlava correntemente l’inglese, coltivava la fotografia, collaborava con testate giornalistiche scrivendo reportage e cronache varie. Ha dimostrato che si poteva anche non vivere di solo sport. I suoi esempi mi sono serviti per acquisire capacità che, aggiunte alla maturità classica e al diploma ISEF (con 8 anni d’insegnamento nel periodo dei miei migliori risultati atletici), mi sono stati utili, direi fondamentali, quando ho deciso di abbandonare lo sport agonistico per cogliere una valida occasione professionale che mi ha garantito il futuro. La persona in questione, già super atleta e poi giornalista di successo, è Franco Fava. 

Franco Fava (classe ‘52) primatista italiano dei 20.000 metri su pista con 58'53"8 stabilito il 4 settembre 1977 a Roma, quattro volte campione italiano assoluto su pista dal 1972 al 1975 nei 3000 siepi. Vanta 5 titoli italiani del cross. 29 volte nazionale italiano, ha partecipato a 2 edizioni dei Giochi olimpici (giungendo 8º alla maratona di Montréal 1976) e a un Campionato europeo di atletica leggera (giungendo 4º a Roma 1974 nei 3000 siepi). Ha vinto tre volte consecutivamente il Campaccio, dal 1976 al 1978. Nei cross, il suo miglior risultato fu il 4º posto ai mondiali di Düsseldorf 1977. 

Matteo SIMONE 

380.4337230 - 21163@tiscali.it 

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